martedì 18 dicembre 2012

Mangiare macaron non vi trasforma in principesse francesi.

E finalmente anche io ho provato questi fantasmagorici e imperdibili macaron. A Milano ovviamente, perchè come le cose più in che esistano nel mondo e che arrivano in Italia, la prima tappa obbligatoria è sempre Milano. E quindi, recatami nella città meneghina, una tappa fondamentale dopo l'esposizione di Canova e la Pietà Rondanini, giusto per mescolare il sacro con il profano, è stato il luccicante e lezioso negozio di Laduree . Fondamentale perchè dopo le innumerevoli foto postate su instagram, fatta ovviamente ed ironicamente anche dalla sottoscritta, da utenti intente ad azzannare i dolcetti colorati, la curiosità di sapere se la loro fama è meritata o meno, verrebbe a chiunque.
Cosa siano i macaron ormai è inutile scriverlo visto che, complice anche l' immensa pubblicità fatta tra fashion blogger e il fortunato drama tv Gossip Girl, chiunque conosce perfettamente queste meringhe colorate e ripiene che leggenda vuole siano stati portati in Francia dall'allora regina Caterina dè Medici, anche se all'inizio non erano cosi fighi e le fashion blogger dell'epoca, perchè io sono convinta che le fashion blogger appestino l'umanità da sempre come le zanzare, anzichè perdere tempo a fotografarli li mangiavano e basta. Giusto per ribadire che si, francesi sarete anche fighi e avete tutta la mia ammirazione, ma comunque siete sempre un passo indietro. Anche se parliamo del 1500.
Se devo dare un giudizio soggettivo sul sapore di questi dolci, non sarei proprio positiva; ho preso due gusti: un classico nocciola e un più ''alla moda''petali di rosa. Il punto però è che il sapore si sente appena, viste le dimensioni del dolce: dopo un primo morso in cui senti solo di star masticando qualcosa ma non ti rendi conto di cosa,all'ultimo morso senti un retrogusto di nocciola che effettivamente è anche buono..ma è appunto l'ultimo morso. E quindi a meno che non si decida di spendere un piccolo patrimonio, perchè ricordiamo che i macaron non hanno un rapporto dimensione-qualità/prezzo ragionevole, si resta un pò con le pive nel sacco.
Quello che a me però interessa sapere, e in un certo presuntuoso modo spiegare, è com'è che un dolce, tra l'altro che esiste da più di 500 anni, abbia un successo cosi grande. La risposta potrebbe essere "le magiche mirabolanti imprese del mondo del marketing e della pubblicità". La prima a dare ai macaron un primo accenno di simbolo-feticcio è stata Sofia Coppola nel suo "Maria Antonietta" dove la regina francese, tra un ballo, vestiti infiocchettati e merlettati e un acconciatura improponibile, trangugiava elegantemente le meringhe ripiene. A questo proposito, ma perchè al 80 % delle volte Maria Antonietta viene rappresentata come una cretina prima e come una casalinga disperata di Wisteria Lane dopo?
Ma ritorniamo ai macaron. Già quindi con Maria Antonietta, le ragazzine e gli hipster di tutto il mondo erano entusiasti dinnanzi a questi bottoncini colorati,contenuti in deliziose scatolette. E l'accelerata finale alla celebrazione del dolce è stata data in tempi più recenti dal già citato drama tv Gossip Girl, dove la protagonista, che non per niente è fan proprio della decapitata regina francese, li mangia estasiata nella vasca da bagno o a spasso proprio per Parigi.
Il punto è che i macaron sono effettivamente dolcetti discreti dal punto di vista alimentare e del gusto (ma volete mettere con un bel maritozzo?)ma grazie ai gusti proposti (lavanda. ma chi diamine mangerebbe un dolce alla lavanda?la lavanda si mette nei sacchetti dentro gli armadi contro le tarme!)e soprattutto ai colori, mangiarli ti rende automaticamente chic e alla moda. O almeno questa è la convinzione che chi li fa e soprattutto chi li mangia vorrebbe in qualche modo far passare, complici anche appunto, le innumerevoli foto di fashion blogger ed aspiranti tali che quasi quotidianamente ci informano di come, recatesi a Parigi (perchè mangiare i macaron è senza dubbio cool, ma il top è mangiarli a Parigi) se ne siano altamente fregate di musei, mostre d'arte e simili, e tenendosi bene alla larga dal Louvre abbiano delapitato i risparmiucci nei negozi Laduree. E quindi, giù con le orde di ragazzine e non, convinte di raggiungere chissà quale livello di eleganza e raffinatezza, di diventare delle petit princess semplicemente mangiando un dolce.
Ma la verità è che certe cose sono innate e non le si acquista di certo mangiando e fotografando quello che prima era semplicemente un cibo e che adesso è diventato quasi tristemente un feticcio, un must have.
Le strane logiche di questa società: una volta si mangiava per sfamarsi o golosità, adesso perchè sennò non sei nessuno.



giovedì 15 novembre 2012

Il male è una forza reale. Una potenza grande almeno quanto il bene. Nell'universo, due forze antitetiche lottano per il predominio.


Per Sant’Agostino il male è non sostanziale. Non è pensabile che provenga da Dio, in quanto Dio è Amore, bensì solo dall’uomo. Per Kant, il male è profondamente radicato nella natura umana ed è impossibile estirparlo. Rousseau invece sostiene che il male è qualcosa che è al di fuori dell’uomo, che risiede negli aspetti terreni e materiali della società (ma non è forse la società composta da uomini?) e nell’800 Marx avrebbe spostato l’intera questione bene-male da un punto di vista politico e soprattutto della lotta di classe . Dal male come interno all’uomo e proveniente dall’uomo stesso ( e quasi del tutto impossibile da sconfiggere) della filosofia antica, si passa quindi a considerare il male come esterno all’essere umano ed eliminabile attraverso politica e scienza. Hanna Arendt nel suo famoso “La Banalità del Male” analizza il processo al gerarca nazista Eichmann: ciò che viene fuori dall’analisi della scrittrice, è che chiunque avrebbe potuto essere Eichmann. La cosa più spaventosa infatti che emerse dal processo era che egli era una persona completamente normale e ciò rendeva possibile che chiunque vi si potesse identificare. Sarebbe stato sufficiente essere privi di idee: Eichmann infatti non aveva idea, non si rendeva minimamente conto di cosa stesse facendo. Era lontano dalla realtà che lo circondava e questo per l’Arendt fu il male: essere inconsapevolmente strumento di un male superiore, in questo caso il nazismo, essere talmente banali da essere facilmente manipolabili dal male come fu appunto per Eichmann.
Ma fatte le dovute riflessioni su cosa sia il male per i filosofi e gli storici, la domanda che ultimamente mi sono posta è: il male è necessario?Come si potrebbe infondo definire cosa sia il bene se non avessimo un parametro di giudizio?Come posso dire di stare bene ed in salute se non conosco il male fisico? Se il male fisico non si fosse mai manifestato e non si manifestasse, io non saprei cos’è il benessere fisico. E sotto un punto di vista più morale, interiore, se io non ho mai provato dolore, angoscia, tormento, come posso essere sicura che ciò che vivo in assenza di questo  sia bene?Il bene è ciò che si manifesta in assenza del male, e viceversa il male è ciò che si manifesta in assenza del bene. L’uno e l’altro sono quindi reciprocamente dipendenti: uno non può esistere in presenza dell’altro ma contemporaneamente non può esistere senza l’esistenza dell’altro.  Non esisterebbero gli eroi se non ci fossero i mostri. Paradossalmente quindi il male è necessario. Il male serve per comprendere appieno cosa sia il bene. Se ci si ferma a pensare, tutto si basa sul contrasto bene o male: non apprezzeremmo la luce se non sapessimo cos’è il buio. E cosi che non conosceremmo l’amore se non sapessimo cos’è l’odio, né saremmo in grado di apprezzarlo completamente. I contrasti che creano equilibrio, principio alla base del concetto di Yin e Yang appartenente alle più antiche filosofia cinese e nelle sue religioni, Taoismo e Confucianesimo.
Si giunge quindi alla conclusione che il male sia necessario. Ma è quindi giusto tentare di estirpare la parte negativa, “malefica” che è contenuta in ognuno di noi? E’ giusto fingere che questa parte non esista, è giusto nasconderla e soprattutto non accettarla? Non sarebbe forse meglio educare le persone ad accettare che ognuno di noi contiene una parte malvagia, oscura, ma che ciò che conta è saperla vincere? Non sto infatti dicendo che accettando il fatto che ognuno di noi sia anche cattivo, si dia libero sfogo a questa parte che molti, per paura ma anche e soprattutto per ipocrisia tentano di tenere nascosta . Bisogna conoscere ciò che teniamo nascosto dentro di noi per poterlo tenere sotto controllo qualora si manifestasse in maniera eccessiva e per poter soprattutto capire cosa sia in realtà l'azione giusta da compiere. Ma negare la dualità dell’animo umano, il suo essere buono ed allo stesso tempo cattivo, è sbagliato tanto quanto lasciare completamente libere le pulsioni maligne che, ogni tanto, prendono chiunque.


mercoledì 31 ottobre 2012

"Senza amare sé stessi non è possibile amare neanche il prossimo, l'odio di sé è identico al gretto egoismo e produce alla fine lo stesso orribile isolamento, la stessa disperazione."

Tutte abbiamo avuto degli amori di carta: quelli che a dai 10 anni in su, ti prendevano per l'attore o il cantante di turno, specie se membro di una boy band americana (sono pur sempre nata alla fine degli anni 80). Dopo aver detto addio a malincuore all'eroe dei cartoni animati che ti aveva rubato il cuore (Milord, I love you)si attaccava il poster di suddetto nuovo amore alla parete della stanza, o dietro la porta, e si rimaneva per tanto tempo a fissarlo immaginando un'impossibile ed improbabile storia d'amore; io poi ero molto furba: siccome capivo che tra me e il cantante americano ci sarebbero stati dei problemi di comunicazione, vista la mia scarsa padronanza dell'inglese a 10 anni, risolvevo il problema rendendo lui capace di parlare in un italiano che Leopardi levati. Amare una popstar era fuori dalla realtà e l'amore che si provava era del tipo più romantico: nessuna lite, nessun problema quotidiano ad affliggere la meravigliosa vita a due esistente nella nostra immaginazione..anche perchè voglio dire...ovviamente la popstar era miliardaria, quindi vedete voi che problemoni poteva avere.
Però crescendo si cambia e,ammetto che  da piccola quando me lo diceva mio padre non volevo crederci, cambia anche il modo di amare. Infondo penso che tutti ripensando alla prima persona di cui si sono innamorati e quella di cui sono innamorate adesso, avvertiranno un diverso modo di amare (ovviamente mi riferisco alle persone che hanno dai 20 anni in su) più maturo e consapevole e forse anche più bello. Perchè si impara a conoscersi e di conseguenza, migliorano i rapporti con gli altri, anche se ammetto di aver sempre odiato la frase ''se ti ami ti amano''; l'ho sempre reputata una frase egoista e l'egoismo ha poco a che fare con l'amore. Invece, devo ammettere che, dopo esperienze personali, un pò di sano egoismo ci rende più forti e più capaci di amare, non fosse altro perchè ci rendiamo conto cosa non vorremmo che qualcun altro ci facesse ed anche perchè ci permette di capirci più a fondo, concentrandoci su noi stessi.
E cambia perchè cambia il nostro rapporto con la realtà: ciò che ci circonda non può essere altro, non è qualcosa di separato da noi e dalla nostra vita; e di conseguenza entra anche nel rapporto di coppia, influenzandolo ed influenzando il nostro modo di amare e di amarci. E la persona che abbiamo accanto non è più un immaginario cavalier servente, ma una persona separata da noi, con i suoi obiettivi, le sue ambizioni. Si arriva ad una dimensione di amore più alta e profonda, in cui si comprende che lasciare libera la persona che abbiamo accanto di avere i suoi spazi non equivale ad allontanarla da noi, ma anzi ad avvicinarla. "L'uomo è nato libero e dappertutto è in catene" diceva Rousseau: incatenato dai doveri, ogni uomo o donna cerca un rapporto che permetta di avere almeno quell'assaggio di libertà che il vivere in società non permette in maniera continua. Ecco perchè il modo di amare cambia con l'età, con l'entrata in contatto con la società e con la conoscenza di sè. Si acquisisce, dall'unione di questi tre elementi, una maturità tale che ci permette di vivere tutto ad un livello superiore, dove i rapporti non sono stretti ed incatenanti e proprio per questo molto più profondi e maturi rispetto agli amori adolescenziali.
Non più solo sentimento, ma consapevolezza di sè e di conseguenza, rispetto per l'altro.
E libertà.



lunedì 22 ottobre 2012

Il diritto allo sbaglio

Forse la  spasmodica e ossessiva ricerca della perfezione in noi e in ogni campo esistenziale, in ogni cosa, ci ha fatto completamente perdere di vista un aspetto della vita che dovremmo ricordarci essere sacrosanto e che dà il titolo a questo post. Ogni persona infondo porta con sè un bagaglio di esperienze ed errori che l'hanno appunto reso ciò che è: ed è sicuramente vero che uno sbaglio fa imparare di più di una vittoria, cosi come un calcio  ti fa fare più passi in avanti di una carezza.
Posto che qui comunque si parla di quegli errori che hanno il merito di insegnarti qualcosa e non quelli che ti fanno finire in galera o a pagare una cauzione, mi rendo conto sempre più che le persone hanno perso di vista la libertà del poter fare degli errori, di poter cadere, potersi sporcare per imparare qualcosa di nuovo e ripartire con qualche esperienza ed insegnamento in più. A cosa serve infondo arrivare al traguardo intonsi se non si è imparato niente? A cosa serve vincere se la vittoria non ti lascia niente, non ti ha insegnato anche una minima cosa nuova che va ad aggiungersi a quel bagaglio di esperienze che ti formano e che ti permettono di definirti uomo?.
Ovviamente questa tematica potrebbe far sorgere delle contraddizioni, perchè va innanzitutto stabilito di che tipo di errori si tratta e soprattutto chi ha il diritto di decidere che, effettivamente, vanno ritenuti tali. Infondo, la storia è piena di episodi in cui interi popoli sono stati sterminati perchè qualcun altro, improvvisamente o meno, ha deciso che quella cultura a cui apparteneva lui e il suo popolo era quella giusta e lui aveva il sacrosanto diritto di impiantarla in tutti i popoli in possesso della cultura sbagliata, perchè lui la riteneva tale.

Ma sbagliare, il diritto a sbagliare non deve essere preso come giustificazione da tutti, da chi per comodità preferisce non impegnarsi appellandosi poi a questo ipotetico diritto.

Il diritto a sbagliare deve essere preso in considerazione da chi si è dimenticato che gli errori non per forza servono a condannare o a farci condannare, da chi non si rende conto che in un giocattolo rotto c'è più storia e vita di uno lasciato integro dentro la sua confezione.

La gente va lasciata libera di sbagliare. E va lasciata libera di rendersi conto dei propri errori.
La gente deve avere il diritto di sporcarsi, come i bambini quando giocano coi colori.
Forse perchè cosi si può imparare veramente qualcosa sulla vita più  di quanto non si faccia con i libri scolastici o con la pomposa cultura esibita con orgoglio e presunzione da chi crede che tanto basti a formare un individuo.

Le persone più saggie che ho conosciuto in vita mia, infondo, erano persone che a scuola nemmeno c'erano andate.







martedì 28 agosto 2012

Non c'è grandezza, dove non c'è semplicità.



Diceva Tolstoj.

Se c'è un merito che dobbiamo riconoscere ai mezzi di comunicazione e al proliferare di social network è quello di essere una finestra su usi, costumi et similia sulle persone. Su quello che fanno, quello che pensano o semplicemente come sono.

Wharol chiedeva "Non è forse la vita una serie di immagini?"
E noi  è alle immagini che ormai affidiamo il compito di parlare di noi, di mostrare una parte di ciò che siamo e viviamo.

L'immensa mole di foto che social come instagram o twitter, o il sempre verde facebook ci permettono di ammirare/osservare/criticare ogni giorno/ ogni minuto pongono sotto i nostri occhi (un pò voyeuristici ammettiamolo) una sfilza di immagini che ci danno almeno in parte l'idea di chi sia la persona che posta la foto in questione.  E se tutto ciò è vero, se è vero che ormai i social network sono uno specchio di ciò che siamo, dobbiamo ormai accettare l'idea che la semplicità è cosa morta e sepolta, a dispetto di quanto diceva lo scrittore russo. Trucchi esagerati da donna vissuta (o meglio ancora, dei vicoli), vestiti sempre più ridotti che lasciano ben poco spazio all'immaginazione e al potere della seduzione, quella vera. Visi rifatti di ragazze che hanno al massimo vent'anni.
Gesti volgari, pose che vorrebbero emulare e  far ricordare le modelle ma hanno risultati al limite tra il grottesco e il ridicolo. Merce in bella mostra, avvalendosi banalmente e tristemente di un "il corpo è mio e ci faccio ciò che mi pare".
E non si sorride. Vedo sempre meno sorrisi nelle foto, con un aumento invece di sguardi finto-distratti che fa sempre molto fescion.
Oppure foto di giovanotti con l'aria trasandata da finto duro/menefreghista/antimoda/antisociale/originale che poi indossano la camicia firmata, gli occhiali (ovviamente i rayban, manco a parlarne) firmati e fanno la foto col cellulare ultraintelligente ultra costoso. Perchè va bene essere originali e controtendenza, ma se poi non c'è nessuno a notare quanto siamo dannatamente fighi e ribelli, che senso avrebbe?
E' l'immagine a contare, quello che gli altri vedono. Quello che noi vediamo degli altri conta ormai.
E noi possiamo dare qualsiasi immagine vogliamo, quasi fossimo degli attori permanenti su un teatro permanente.

E non ci si limita alle foto.
Anche il modo di scrivere, di esporre i pensieri diventa sempre più articolato, pomposo ai limiti della fastidiosità.
Uno sciorinare di paroloni volti ad impressionare per l'immensa conoscenza e cultura che si vuole dimostrare di avere e di saper padroneggiare, elevandosi dalla massa ignorante, dalla plebaglia.
Io immensa letteraria costretta a vivere in questo mondo di pecoroni ignoranti.



La semplicità è morta anche nel modo di scrivere.
"Se non si capisce cosa dice è geniale" dice una canzone.

E' come se si fosse instaurata una lotta sterminatrice verso tutto quello che è semplice e genuino; come se ormai semplicità fosse sinonimo di banalità, di noia. Ed ecco che fuggiamo via il più velocemente possibile per dimostrare che non siamo banali o noiosi, senza notare che ci massifichiamo sempre più.

Forse bisognerebbe riscoprire la bellezza di un semplice e spontaneo sorriso, non svalutarlo o banalizzarlo.
La bellezza di un gesto elegante e posato.
Bisognerebbe farsi conquistare da parole semplici, un pò come quelle dei bambini, non ostinarsi a lodare parole ricercate ma incomprensibili.


Che poi alle fine, non le capisce nemmeno chi le scrive.



"La semplicità è la principale condizione della bellezza morale"







mercoledì 22 agosto 2012

Quando la trasgressione diventa conformismo.

Quand'è che una moda di per sè trasgressiva, comincia a diventare obsoleta fino quasi al conformismo più totale?
Mi riferisco all'ormai normale e generale abitudine moda di ricoprire parti o l'intera epidermide con disegni, scritte, simboli incomprensibili ai più: in altre e semplici parole, la moda del tatuaggio. Per quanto possa sembrare una tradizione moderna, le origini del tatuaggio vanno fatte risalire sino al 3300 a.C.; è inoltre documentato l'uso del tatuaggio presso la religione cristiana nel periodo precedente alla sua ufficializzazione, ossia quando i cristiani non potendo manifestare apertamente la propria religione, solevano tatuarsi simboli di riconoscimento. In Italia nel 1992 è stata rinvenuta una mummia ( la mummia di Oetzi) con segni tatuati sul corpo, il che fa presupporre che questa pratica fosse in uso perfino nella preistoria.
Il significato del tatuaggio e del tatuarsi può essere diverso, e cambia ovviamente in base alle epoche e ai luoghi dove questo avviene. E mentre nell'antica Roma il tatuaggio si applicava sugli schiavi per renderli tutti uguali e riconoscibili come appartenenti ad un determinato padrone, il ruolo e il compito che oggi assume è al contrario quello di distinguere, particolarizzare, rendere unico chi lo porta.
O almeno era questo fino a qualche tempo fa.
Il dilagare sempre maggiore di questa moda ha ormai fatto perdere quello che in epoca moderna era il "compito" del tatuaggio; che sia un tribale o un disegno con un significato preciso, ormai imperano ovunque: in Italia solamente sono  ben 3 milioni le persone che ne hanno almeno uno;di certo un numero abbastanza elevato per essere ormai considerato come un fenomeno capace di suscitare stupore e critiche, ossia di essere trasgressivo. Questa moda ha visto una grande diffusione nel 2001 grazie al fenomeno mediatico nato in America (e dove sennò?) e conosciuto con il nome di Suicide Girl: ragazze, non necessariamente modelle professioniste, ritratte in pose seminude e sopratutto con i corpi coperti in più punti da immagini indelebili.
Ma quando una moda si diffonde, per quanto sia infondo questo il suo compito (ossia quello di arrivare alla maggior parte delle persone), si auto-immette in un processo di autodistruzione: paradossalmente una moda, specie quelle trasgressive, per rimanere tale e rimanere in vita deve limitarsi a rimanere confinata in una nicchia, di essere inaccessibile ai più.
Il tatuaggio infatti sta ormai perdendo quella che era la sua particolarità, riducendosi sempre più ad un capriccio estetico spesso senza alcun significato preciso, confermato dal fatto che ormai la maggior parte delle persone usano tatuarsi immagini, fiocchetti e stelline su tutti, non ricollegate a nessun evento o ricordo, come invece accadeva non molto tempo fa. Ironicamente il tatuaggio sta compiendo una specie di giro di boa: cosi come nell'antica Roma aveva la funzione di segno riconoscimento sugli schiavi, massificandoli ed eliminando ogni loro individualità e sopratutto eliminando il loro essere persone (ricordo che era proprio tramite un tatuaggio che i nazisti eliminavano simbolicamente l'individualità dei prigionieri nei campi di concentramento), sta a poco a poco tornando ad avere la stessa funzione, accrescendo sempre di più quel folto gruppo di persone che si considerano forse e ormai a torto trasgressive e particolari.
A mio parere, la particolarità e la trasgressione del tatuaggio non esiste più, cosi come non sono più considerate trasgressive le persone che si tatuano. Dalla trasgressione alla normalità, quasi al conformismo.
E infondo quasi rassicurante, proprio per quel mix di violazione delle norme non scritte ma eticamente condivise e quel conformismo che ha ormai reso blanda e tranquilla questa moda.



domenica 12 agosto 2012

Hard Rock Records

Avete presente l'Hard Rock Cafè? Quello delle magliette bianche che, parere personale, in quanto a bruttezza fanno concorrenza alle borse da shopper con su il nome della città in cui ci si trova?
Il colosso della ristorazione vanta ben 145 Cafè in tutto il mondo e 12 hotel, oltre a casinò ed arene per concerti;sei anni fa ha dato vita ad uno dei più importanti festival rock del mondo, che si tiene ogni anno nella londinese Hyde Park e che in quest'edizione ha regalato un memorabile incontro live tra Paul McCartney e Bruce Springsteen; adesso è giunta la notizia che sta per imbarcarsi in una nuova avventura: sta per arrivare l'etichetta discografica del ristorante, chiamato, udite udite, "Hard Rock Records". Un'operazione forse commercialmente rischiosa, vista l'attuale sfavorevole congiuntura in cui si trova il mercato discografico, sempre più surclassato dalla discografia online. Ma i tre ideatori dell'operazione, John Galloway, Blake Smith e James Buell si dichiarano fiduciosi ed infatti hanno già firmato il loro primo contratto con Rosco Bandanda, già esibitosi al festival sopracitato e di cui qui potete vedere un'esecuzione live del 2011: http://www.youtube.com/watch?v=wF8wQ96SYJw.

Ma dove sta la novità principale di quest'etichetta che dovrebbe ufficialmente essere inaugurata a settembre?
Semplicemente che i tre fondatori non vogliono fare soldi. E' tutto basato sulla logica del "no-profit": per anni il progetto discografico è stato rimandato proprio quando si arrivava davanti alla questione dei soldi, su come ottenerli; alla fine, in maniera semplice ed anche un pò naif, si è giunti alla soluzione del dilemma decidendo appunto di non fare soldi. Un'operazione filantropica. Apparentemente.
Si perchè la casa discografica metterà sotto contratto 4 band ( o cantanti) l'anno,sostenendoli per un intero anno con le normali operazioni del settore: incisione dell'album, video, tour, promozione. E nel frattempo, si cerca un'altra casa discografica (magari un pezzo grosso) che sia disposta a mettere sotto vero contratto il gruppo o il cantante in questione, che comunque potrà tenere ogni centesimo guadagnato con l'Hard Rock Records. E loro come guadagnano? Nella maniera più furba e redditizia che possa esistere: pubblicità.
Tutta un'immensa, gigantesca operazione di marketing giocata sul talento (altrui) per rilanciare (anche se effettivamente non ce n'è bisogno) l'immagine e la streets credibility del marchio. E questo, si sa, frutta molti soldi.

Marchio che ormai non ha più bisogno di presentazioni, visto che i ristoranti di tutto il mondo sono ormai luoghi di culto e il merchandising va dalle spillette ai canali a rotazione musicale no-stop. Infondo, c'è da dire per i pochi che non lo sapessero, che i ristoranti  Hard Rock oltre a prezzi abbordabili per il mangiare, offrono la possibilità di ammirare "cimeli storici" come le chitarre di Jimi Hendrix e gli abiti indossati dai Beatles. Oggi tutto ha un aria più industrializzata e meno da club per appassionati del genere: e cosi non potrebbe essere altrimenti, visto l'immensa collezione appartenente al colosso che si dice si aggiri intorno ai 30 milioni di dollari e che iniziò quando Eric Clapton chiese di appendere la sua chitarra sul muro dietro il suo tavolo preferito, per indicare a tutti che quello era il suo posto. Da li in poi, fu un susseguirsi di cimeli, alcuni ancora conservati, altri battuti all'asta.


Insomma, fin'ora il marchio londinese è stato una miniera d'oro.
Resta da vedere se la casa discografica seguirà l'aureo destino di ristoranti, alberghi e club.






domenica 5 agosto 2012

Bye bye Baby.

Il 5 agosto di 50 anni fa si spegneva a soli 32 anni la donna sex-simbol per eccellenza, "titolo" affibbiatole dall'immortale Marlene Dietrich, Marilyn Monroe. Nata Norma Jeane Baker, vive un'infanzia che meriterebbe un posto d'onore tra i racconti Dickensiani: padre ignoto, madre schizofrenica ed incapace di prendersi cura di lei ed una serie continua di affidi e adozioni, che si portano dietro storie di violenze ed abusi sessuali. La sua carriera inizia nel 1945 quando il fotografo David Conover le propone di lavorare come modella per alcune fotografie che sarebbero servite a "tenere alto" il morale delle truppe americane impegnate nella seconda guerra mondiale in Europa; a poco a poco le sue foto fanno il giro del mondo, e lei viene  messa sotto contratto da una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo: le schiariscono i capelli, le insegnano a sorridere e ad usare il giusto tono di voce. Il mito Marilyn comincia ad affacciarsi sul mondo di Hollywood. Il nome che poi l'avrebbe consacrata nell'immaginario collettivo, e che sarebbe diventato praticamente un marchio, fu scelto dalla diva insieme al regista Ben Lyon: inizialmente la scelta era caduta su Carole Lind, in onore dell'attrice Carole Lombard e della soprano svedese Jenny Lind, ma fu l'unione tra il nome dell'attrice Marilyn Miller e del cognome Monroe della nonna materna di Norma ad avere la meglio.
Senza elencare le disavventure professionali a cui andò incontro l'attrice (si dice addirittura che per un periodo dovette prostituirsi sulla Sunset Boulevard), l'incontro che avviò Marilyn sulla strada del successo cinematrografico avvenne il capodanno del 1948: il talent scout Johnny Hyde, già scopritore di Rita Hayworth, notò la bionda attrice e convinto che sarebbe diventata una diva del grande schermo, convinse la Metro Goldwyn Mayer ad inserirla nel cast di "Giungla d'asfalto"  e "Eva contro Eva" accanto a Bette Davis.
Senza soffermarci sui successi o meno dell'attrice, che comunque si lamentò sempre dei ruoli da dumb blonde che le venivano continuamente proposti, a distanza di 50 anni dalla sua morte, quello che rimane impresso oltre alla sua bellezza ed avvenenza, è l'alone di infinita tristezza e solitudine che aleggiava intorno alla diva dai capelli di platino. Oltre alla già citata e triste infanzia, l'attrice collezionò una serie di amori sbagliati e deleteri, a cominciare dal celebre matrimonio con il giocatore di baseball Joe Di Maggio culminato in un divorzio nove mesi dopo e, secondo le indiscrezioni dopo alcuni episodi di violenza subiti dall'attrice. E poi quello con Arthur Miller, un'unione definita inconciliabile quanto quella di un gatto con un gufo: l'attrice si accollò, è il caso di dirlo, il mantenimento del marito e perfino quello della sua ex moglie. In quel periodo Marilyn aveva già iniziato a fare grande uso di droghe ed antidepressivi a causa anche di numerosi aborti, con cambiamenti di umore che andavano dall'euforia più sfrenata alla depressione più nera: il comportamento instabile di Marilyn e la differenza caratteriale inconciliabile portarono al secondo divorzio.
La fine del matrimonio con Miller la condusse ad uno stato depressivo tale che divenne dipendente dai farmaci fino a dover essere ricoverata in ospedale per dieci giorni, facendo parlare i giornali dell'epoca di essere ad un passo dalla morte. La salute dell'attrice e le sue condizioni psicologiche subirono un duro colpo quando Frank Sinatra, con il quale aveva iniziato una relazione poco dopo il divorzio da Miller, annunciò il suo matrimonio con Juliet Prowse e Arthur Miller il suo secondo matrimonio con Inge Morath:
Ma l'incontro fatale per Marilyn fu quello con i Kennedy: amante prima di John, quando lui si stancò, lei divenne l'amante del fratello Bob. Lo stato di Marilyn in questo periodo subì una ripresa, dovuta anche alla sua convinzione che da li a poco si sarebbe sposata con "un uomo molto potente ed importante" come lei stessa diceva spesso ai suoi amici. Ma l'epilogo di questo ennesimo turbolento e distruttivo rapporto, è ben diverso da come lei l'aveva immaginato: secondo alcune indiscrezioni Bob Kennedy si recò a casa dell'attrice il 4 agosto del 1962, il giorno prima che l'attrice venisse trovata morta dal suo psichiatra personale. Secondo alcune tesi complottistiche la presenza di Kennedy nell'appartamento dell'attrice il giorno prima della morte non fu casuale; il fratello del presidente voleva infatti lasciare Marilyn che era intenzionata a dichiarare pubblicamente la loro relazione, e questo avrebbe potuto inficiare la carriera politica dei Kennedy.
Ufficialmente fu dichiarata suicida, ma l'ipotesi dell'omicidio negli ultimi anni prende sempre più piede.

Persona triste e sola Marilyn. Come attrice ammetto di non averla mai considerata granchè, ma mi ha colpito l'infinita tristezza che aleggiava intorno a lei, quell'aurea di malinconia e solitudine che si portava dietro. Lontana anni luce da quello che il suo personaggio rappresentava: la sensualità e solarità (e anche un pò stupidità) dei personaggi da lei interpretati nei suoi film erano ben distanti dall'insicurezza e dal marcato bisogno di affetto che ha caratterizzato la diva. La mancanza di una famiglia alle spalle e di quell'affetto che naturalmente tutti hanno e che contribuisce alla formazione del carattere e della sicurezza di ognuno, hanno sempre segnato la vita affettiva dell'attrice, che si trovava sempre in una ricerca continua e disperata di amore. Un urlo disperato che veniva sentito dalle persone più sbagliate, sciacalli pronti a sfruttarla per la sua bellezza e la sua immensa fragilità, per poi abbandonarla nuovamente, di nuovo preda di paure e bisogni affettivi. Una spirale continua di distruzione ed autodistruzione, come divenne dopo che iniziò, probabilmente per il troppo stress emotivo, a far uso di droghe e psicofarmaci cercando in loro quell'aiuto che le persone non erano in grado di darle. O forse non volevano visto che una diva fragile e sotto stress è più facilmente manipolabile. Si dice che negli ultimi anni della sua vita divenne schizofrenica: forse il suo bisogno di essere amata era semplicemente arrivato al culmine, la sua disperazione e la sua solitudine erano arrivati ad un punto tale che indietro non si poteva tornare; e infondo fu proprio quell'amore che lei tanto cercava a condurla nelle braccia della morte. E anche dopo la sua morte, gli sciacalli pronti ad accanirsi su di lei non mancano: pochi giorni fa, un museo americano di arte moderna ha aperto una mostra sull'attrice e in bella mostra sul cartellone campeggiava la scritta "Entra a vedere tutte le boccette di pillole vuote di Marilyn!".
L'america, il paese che crea i sogni e distrugge i sognatori.






venerdì 20 luglio 2012

Donne in carriera. Non in Italia ovviamente.

Mentre nel nostro Paese la percentuale delle donne presenti sul mercato è la più bassa d'Europa, in America una donna diventa CEO (amministratore delegato) di una delle più importanti internet company, ossia Yahoo. La donna in questione è Marissa Mayer, bionda (oggettivamente figa ci aggiungo io), passato da ballerina classica e con una grandissima esperienza alle spalle: è laureata con lode in Scienze Informatiche alla Stanford University (sono andata a dare un'occhiata e pare che alcuni studenti di questa università abbiano fondato poi compagnie come Google o la stessa Yahoo, e che alle ultime Olimpiadi di Pechino gli studenti che hanno partecipato hanno vinto ben 25 medaglie) con una specializzazione in Intelligenza artificiale e con il dottorato honoris causa assegnatole per la sua ricerca sul campo; lavorativamente parlando invece, ha lavorato per 13 anni in Google, prima neolaureata assunta con il titolo di ingegnere, fino a diventarne vice presidente. Fa parte dei seguenti consigli d'amministrazione: S. Francisco Museum of Modern Art, S. Francisco Ballet, New York City Ballet, Cooper- Hewitt,National Design Museum e Walmart. E tutto questo a soli 37 anni. E nel 2008, a 33 anni,è stata inserita da Forbes nella lista delle America's 50 Most Powerful Women in Business, risultandone come la più giovane manager mai apparsa nella classifica, e dalla lista non si è in effetti più mossa.
La cosa più bella e che segna la nettissima differenza e distanza con il nostro Paese, è che mentre i media annunciavano la nuova carica di CEO della Mayer, lei, tramite il suo twitter, annunciava al mondo di essere in dolce attesa.
Bella, giovane,incinta e in carrierissima. In America  (e diciamocelo, praticamente in tutto il resto del mondo industrializzato) l'ascesa al ''potere'' di questa bella bionda appare semplicemente come il giusto coronamento e riconoscimento di una carriera scoppiettante e anche di un duro lavoro e di tanto impegno; da noi, in Italia appare come la trama di un film che (ovviamente) nemmeno in quel caso si svolgerebbe nel nostro Paese. Secondo una ricerca di Cerved group riguardante la presenza e il ruolo delle donne nei consigli d'amministrazione delle società di capitale di maggiore dimensione (ossia quelle che nell'ultimo bilancio hanno superato o raggiunto 10 milioni di euro) è risultato che in Italia su 100 imprese 71 non hanno nemmeno una donna nel loro CdA, 29 hanno una sola presenza femminile (e di minoranza) e solo una società ha un numero pari di uomini e donne. E quelle che fanno parte dei CdA non hanno meno di 45 anni.
Ma perchè tutta questa differenza?
Semplicemente perchè l'Italia è la prima in classifica (Eurostat) per quanto riguarda il tempo dedicato al lavoro domestico. E questo ci spiega praticamente tutto: una delle (se non la) principali cause del mancato ingresso del lavoro ( o del proseguimento di carriera) è la mancanza di supporto all'attività domestica, che causa un sempre maggiore ricorso al part time.
Da noi è stata da poco approvata la riforma del lavoro voluta dal ministro Elsa Fornero: uno dei punti principali è la conciliazione tra lavoro e famiglia, introducendo sia iniziative specifiche per le madri lavoratrici che il congedo di paternità obbligatorio. Congedo che però dimostra un'altra netta differenza con il resto dei Paesi industrializzati: nei Paesi scandinavi il congedo di paternità raggiunge le due settimane, da noi solo tre giorni. 
E sappiamo benissimo che un uomo alle prese con un bambino, nella maggior parte dei casi, in tre giorni fa solo più danni*.


In Italia insomma, il tempo  per la donna si è fermato e a ben guardare, alla maggior parte delle persone va bene cosi: l'immagine di donne manager rimane ancora un miraggio, uno scenario da film televisivo o meglio ancora cinematografico (cosi la distanza con la realtà aumenta ancora di più). Da noi la donna è ancora e soprattutto mamma, sforna figli, sforna torte, sforna camice pulite e stirate per compagni e mariti che vanno a occupare posti manageriali che noi ci possiamo sognare.
Il divario con (gli altri) i Paesi industrializzati si fa sempre più netto e difficile da colmare. Basti solo pensare al numero di neolaureati (in questo caso prendiamo in considerazione solo le donne) che scelgono l'estero per proseguire sia la loro formazione, sia per iniziare un percorso lavorativo che darà loro più soddisfazione, e le porterà più in alto, di quanto non possa fare il rimanere in Italia.






*: frecciatina sessista, concedetemela.


mercoledì 11 luglio 2012

Uomini, omuncoli e quaquaraqua.

Gli europei sono ormai alle spalle ed anche la figura barbina che l'Italia ha rimediato in finale contro una Spagna oggettivamente più forte. Ma finiti i tiri al pallone, gli azzurri fanno quello che gli riesce meglio: gossip. No, questo non è un post sul calcio; ma è in un certo senso il calcio che mi ha ispirato: da qualche giorno, la notizia che ha preso il posto di allenamenti e partite della nostra nazionale, è quella che Balotelli aspetterebbe un figlio dalla ex fidanzata Raffaella Fico. No, non è nemmeno un post sul gossip e sulle presunte gravidanze (ma tanti auguri comunque). Ma, mentre mi dedicavo al nobilissimo sport della nulla facenza post esami, leggendo il tam tam di ''Il figlio è tuo fai il test del dna'' '' No, non è mio'' e vedendo le foto del calciatore intento a farsi fare massaggi anzichè stare vicino alla donna che porta in grembo suo figlio, mi è sorta spontanea una domanda: ma noi donne quale disgrazia/peccato abbiamo mai commesso per aver a che fare con gli uomini, il cui cervello si rimpicciolisce man mano che proseguiamo negli anni?Ma non bastavano quei meravigliosi periodi che ci prendono ogni 28 giorni?
Ma gli uomini, " quelli di una volta" sono veramente tutti spariti? Parliamoci chiaro, non sto facendo un discorso generale, lo so che ci sono anche uomini vecchio stampo, capaci di prendersi le proprie responsabilità senza essere preda di attacchi epilettici stile L'esorcismo di Emily Rose. Solo che, o sono scema io, o al momento non ne vedo. Faccio ovviamente una restrizione del campo d'indagine: io faccio parte di quella fascia d'età, 24-30 (oddio, che odio scrivere 30!) in cui, se le donne maturano quasi completamente e cominciano ad entrare nell'ottica che prima o poi avranno (volendo) una famiglia, l'uomo invece fa il procedimento inverso, e forse proprio per il pensiero di avere un giorno un impegno come quello di una famiglia, regredisce di almeno un decennio grazie a quella meravigliosa cosa chiamata "Sindrome di Peter Pan". E cosi, anzichè impegnarsi in una relazione stabile, l'uomo di suddetta fascia preferisce liberarsi di tutti gli impegni, magari presi precedentemente, per darsi alla pazza gioia ed andare alla ricerca di quel tipo di donna che invece non rientra nella classificazione fatta poc'anzi, e di cui però evitiamo di dare la definizione (sebbene abbiamo capito perfettamente quale sia) giusto per non urtare la sensibilità di qualcuno (cosi fa anche blog importante). E cosi, messa da parte la compagna e gli impegni seri presi probabilmente in un raro momento di maturità paragonabile al passaggio della cometa di Halley, l'uomo in questione comincia a sfarfallare in giro, saltellando di erbetta in erbetta (non fiori, erba, erbaccia) come Fiocco di Neve di Heidi; collezionando cosi una serie di flirt che riempiono il letto, gonfiano l'ego e ti sgonfiano il cuore...e ti liofilizzano il cervello. Eppure pare che agli uomini faccia veramente piacere comportarsi con in cervello in modalità off line e ricercare le emozioni più superficiali possibili. Fin quando, improvvisamente (evidentemente sta ripassando la cometa) non si rendono conto di volere qualcosa di più nella vita e tornano sui propri passi, sperando che intanto la ragazza abbandonata in stile Madama Butterfly non abbia deciso di mollare il colpo. E alle fine il povero rimbecillito, resosi conto della sovrumana cazzata compiuta, rimane a prendersi a sberle da solo. A meno che, caso unico più che raro, non abbia la fortuna di avere accanto una donna molto più matura e capace di capire i semplici meccanismi che regolano il cervello maschile.

Ma visto che sono una persona oggettiva, e non voglio fare torto a nessuno, c'è da dire che come regrediscono alcuni uomini, certe donne non sono da meno. C'è da dire che il meccanismo che spinge alcune ''donne'' a comportarsi in certi modi, per me rimane ancora più incomprensibile di certe formule matematiche. Voglia di piacere, insicurezza, esibizionismo o pura e semplice, perdonatemi e passatemi il termine, zoccolaggine?
E soprattutto, le donne che cosi non sono, come devono comportarsi di fronte agli ''attacchi'' di questa sottospecie di genere femminile?
Mi tocca qui riportare alla luce fatti personali di pochi anni fa. La storia è la solita, classica. Lui e lei, sintonia meravigliosa. Poi ovviamente l'altra. No, non l'amante. L'amica che, stile cozza attaccata allo scoglio, non si riesce a scollare da lui nè accetta il fatto che questo fantomatico rapporto meraviglioso che lei crede di avere con lui esiste solo nella sua testa. Io ci perdevo il sonno. E la salute. Trovavo (si vabbè trovavo..dai,l'abbiamo fatto tutte di dare la sbirciatina...) messaggi della suddetta tipa in questione in cui aveva il coraggio di lamentarsi perchè lui, dopo una serata passata insieme con i loro amici, o dopo una cena a casa sua ( e qui io faccio un applauso alla mia maturità che mi consentiva di non lanciargli bombe al napalm quando mi diceva che andava a cena a casa di un amica) lui non rimaneva a dormire a casa sua (precisazione necessaria: dormire come amico). E ovviamente io che sono matura e aperta di mente, ma sono pur sempre una donna del sud, dopo un iniziale momento in cui scartavo l'ipotesi di prendere a criccate sui denti la tipa (anche perche le avrei fatto un favore) optavo per una "non pacifica- ma decisamente meno sanguinolenta" discussione in cui lui mi spiegava che si, questi atteggiamenti infastidivano parecchio anche lui, cosi come tanti altri che lei aveva nei suoi confronti e che più volte lui stesso le aveva spiegato che certe richieste non poteva avanzarle, seppure si trattasse di richieste in amicizia e che comunque questo fantomatico rapporto di amicizia lui non lo viveva minimamente come da lei invece descritto. A questo punto mi chiedo: cosa spinge una donna a comportarsi in questo modo, pur sapendo di essere causa di litigi? E' forse proprio l'essere causa di litigio tra due persone ciò che  da maggiormente soddisfazione? L'essere l'elemento di disturbo?
E le donne che cosi, per carattere o per mentalità, non si sanno comportare...come devono comportarsi davanti a cose di questo genere? Lasciare passare mostrando una maturità e quella stramaledetta (lei e chi l'ha inventata) apertura mentale o mettere il disgraziato davanti alla classica scelta ''O me o lei''? Se qualcuno me lo spiega, mi fa un immenso favore.



venerdì 22 giugno 2012

Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte,mi cercarono l'anima a forza di botte.

Un film. Uno di quelli peggiori, di quelli che se li vedi ti angosciano, e ti lasciano col tormento che quello successo al protagonista potrebbe accadere a tuo fratello o un tuo amico; un ragazzo, un diciottenne cammina per la strada di Via Bologna: è appena uscito da un locale con amici, hanno bevuto, assunto un pò di droga di quella leggera, qualche spinello, e lui decide di tornarsene appunto a casa a piedi. Una pattuglia della polizia lo nota. E' l'alba. E il ragazzo è violento, violentissimo. Talmente violento da attaccare i due poliziotti che devono addirittura chiamare rinforzi. Arrivano altri due poliziotti che tentano di calmare quel ragazzo invasato che comincia ad attaccare con colpi di karate, tanto da rompere due manganelli. E questa è la versione data dai poliziotti. Il ragazzo poco dopo, otto minuti per la precisione, è morto: l'ambulanza giunta sul posto non può che constatare il decesso del ragazzo, trovato con le manette ai polsi.
E poi il seguito, quando le luci del giorno si fanno più chiare e l'incubo sempre più scuro. I genitori si accorgono che il figlio alle otto non sta dormendo nel suo letto. E pensateci, quelli tra voi che sono genitori, che cosa vuol dire svegliarsi e trovare il letto del proprio figlio vuoto; pensate a cosa possono provare un padre e una madre quando, dopo che per l'ennesima volta il cellulare aveva squillato invano, sentono dall' altra parte non la voce del figlio, ma quella di uno sconosciuto che annuncia di aver trovato il cellulare per strada e che si stanno effettuando degli accertamenti. E quando poi, ore dopo, una pattuglia della polizia si presenta a casa spiegando freddamente, quasi come se fosse appunto un film, quello che è successo a due genitori. Pensate a cosa hanno potuto pensare in quel preciso momento i genitori di Federico Aldrovandi, Lino e Patrizia, quel 25 settembre 2005, ben sette anni fa. Ogni volta che provo a figurarmi la scena nella testa, mi si gela il sangue nelle vene, a me che madre ancora non lo sono.
Un genitore non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio. Anzi, senza condizionale: un genitore NON DEVE sopravvivere al proprio figlio, è la cosa più innaturale del mondo.
E pensate a come deve essere gelato il sangue ai genitori quando in questura dicono loro che il figlio era un drogato, un'appartenente alla gioventù bruciata e che se era morto era solo colpa sua e delle droghe che aveva preso. Se l'era cercata, insomma. Eppure il corpo del figlio all'obitorio urla tutt'altro: insanguinato, tumefatto,le ferite lacero contuse alla testa fanno capire che si sta nascondendo qualcosa, una verità scomoda ed orrenda. Pensate al dolore dei genitori: non provo nemmeno a figurarmelo, non provo nemmeno a immaginare cosa hanno provato guardando il corpo di Federico mentre la polizia ripeteva la tarantella della droga.
Ma infondo, sono sicura che i genitori alle parole del questore non avevano minimamente creduto...ogni madre conosce il proprio figlio, sa se è o no un tossicodipendente. Da quel momento per la famiglia di Federico comincia un lungo calvario di processi, depistaggini, in cui non sembra mai apparire la fine del tunnel, in cui la verità viene continuamente manomessa.
E finalmente due giorni fa, la fine del tunnel si è vista: i quattro poliziotti sono stati condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per l'omicidio del diciottenne Federico Aldrovandi ;ma siccome siamo pur sempre in Italia, i poliziotti non si faranno nemmeno un'ora in prigione perchè c'è quella stramaledetta cosa chiamata indulto.
I genitori tirano un mezzo sospiro di sollievo: mezzo perchè giustizia è stata fatta, ma infondo niente riporterà a casa il figlio.  Quel letto rimarrà vuoto.
E' una vittoria amara, caratterizzata anche dalla infelicissima uscita del Ministro dell'interno, che sembra quasi voler rimettere in discussione tutto. "Se ci sono stati degli abusi..." Se?? Federico, cadrò nella banalità, non doveva morire. Non aveva qualche male incurabile, uno di quelli che alla fine portano addirittura a dire "Ha smesso di soffrire". Era un ragazzino: di storie come la sua ne è piena la cronaca italiana, basti pensare al caso Cucchi o Uva; ma qui, se mi è concesso, il cuore fa un sobbalzo in più, si stringe di più. Perchè Federico aveva compiuto solo due mesi prima 18 anni, affacciandosi alla vita adulta. Giusto un attimo, il tempo di spiccare il volo per poi schiantarsi violentemente al suolo.
Ma giustizia in un certo senso è stata fatta, Federico adesso potrà veramente riposare in pace.



"Salvate le sue labbra, salvate il suo sorriso...non ha vent'anni ancora, cadrà l'inverno anche sopra il suo viso"


sabato 16 giugno 2012

Studentesse e prostituzione.

La cosa che più fa pensare, leggendo certe notizie, è che infondo non è scritto niente di nuovo. Il che è già di per sè tragico, visto che la notizia di cui sto parlando, è quella riportata dal Corriere della sera sul fenomeno della prostituzione tra le studentesse italiane che, per pagarsi gli studi o semplicemente per la voglia di condurre una vita più agiata (leggi: da vip) decidono di offrire prestazioni sessuali in cambio di soldi. Personalmente, alla storia delle studentesse che arrivano a tanto per pagarsi gli studi ci credo poco e niente: di studentesse che per non pesare sulla famiglia decidono di pagarsi da se gli studi ne conosco molte, moltissime, e nessuna di loro ha mai scelto la via della prostituzione. Purtroppo questo fenomeno è strettamente collegato con un altro aspetto della società e  che in essa si fa sempre più largo.
E dare la giusta collocazione al fenomeno preso in esame, rende più comprensibile il fenomeno stesso; non è di certo un mistero che la maggior parte, se non la totalità, delle ragazze che decidono di intraprendere questa strada viva a Roma o a Milano. Soprattutto a Milano. Quella città metropoli del mondo, con le sue settimane della moda e i suoi locali chic e glamour. Quella città piena di modelle, modelline e presunte tali che vengono dall'est in cerca di fortuna e poi, metà di loro, si ritrovano a fare le accompagnatrici a vecchi avvocati o rampanti imprenditori, sperando prima o poi di riuscire a ricalcare le orme della Vivien di Pretty Woman. O anche, appunto, semplici ragazze che si ritrovano a sfiorare questo mondo di lustrini e pailettes, cravatte e tacchi alti e desiderano ardentemente farne parte. Il lusso, la fama e quella vita raccontata dai giornali di gossip e dai programmi televisivi  che fa gola a tante ragazze; forse per il sogno di una vita più tranquilla (?) o forse semplicemente per vanità. Non dobbiamo a tutti i costi andare sempre a cercare il risvolto tragico/psicologico in determinati comportamenti, non dobbiamo per forza andare a cercare remoti traumi psicologici o deficit di affetto familiare o mancanze economiche. Più semplicemente, nella maggior parte dei casi, si tratta di ragazze di buona famiglia, o comunque di condizioni economiche tranquille, che vogliono appunto compiere un salto in avanti nella scalata sociale. Ed ecco che appunto qui tornano in ballo quei giornali e quel tipo di televisione che impera in Italia da circa vent'anni (non specifichiamo quando, altrimenti rischio di sforare nel discorso politico) e che mostrano semplici ragazze divenute improvvisamente star internazionali dopo qualche foto di "nudo artistico" o nella maggior parte dei casi, cene e dopo cene con chi di dovere può aprire le porte di quel mondo che per il momento ammirano da lontano. Cosi, chi osserva e trova ammirevole tutto ciò, intraprende lo stesso cammino, cominciando con favori sessuali in cambio di qualche centinaio di euro, quello che basta per entrare nei posti giusti dove trovare prede sempre più facoltose, passpartout per un altro passo verso il raggiungimento del loro sogno di gloria.
E mica ci sono sempre le povere martiri da trovare in ogni storia.

No, la storia delle studentesse che si prostituiscono per pagarsi gli studi, per quanto mi riguarda, ha poca attinenza ormai con la realtà: chi vuol pagarsi gli studi fa la commessa, la baby sitter, lavora nei call center. La percentuale di chi usa la via della prostituzione è minore di quanto si creda.





martedì 12 giugno 2012

Cinquanta sfumature di stereotipi.

E' in arrivo dagli Stati Uniti  il nuovo fenomeno letterario del momento: "Cinquanta sfumature di grigio" dell'inglese E. L. James. Nel libro la protagonista è innamorata di tal riccone, e per compiacerlo accetta di sottomettersi alle sue fantasie sessuali; manco a dirlo, in America hanno deciso di farci su un film: abbastanza scontato visto che parliamo di un libro in cui c'è una donna sottomessa ad un uomo di potere e soprattutto è farcito di sesso a gogò (Sex and the city insegna). Il libro ha però fatto discutere per l'immagine stereotipata che dà sia dell'uomo che della donna, soprattutto in campo sessuale. Ed è cosi che il sito di D Repubblica, mette a disposizione un'intervista con il sessuologo Fabrizio Quattrini, presidente dell'istituto Sessuologia Scientifica di Roma che dà la sua personale visione sull'argomento stereotipi sessuali. Visione che, manco a dirlo, non trova la mia approvazione. Tralasciando la parentesi sulle fantasie sessuali delle donne, che trovo anche pericolose, è abbastanza deprimente infatti che ancora nel 2012 la donna venga vista come la  stronza megera, immagine che già la  Chiesa ha deciso di affibbiarci fin dagli albori della nascita del mondo, pronta a far credere all'uomo che è lui a comandare, dargli ciò che vuole in camera da letto e poi farsi ingravidare per ribaltare i ruoli della situazione e tenere l'uomo stretto a sè. E' deprimente ed assolutamente maschilista.
Intanto perchè ancora una volta è la donna che fa la parte di chi tiene le redini del gioco nell'ombra, che usa a suo piacimento l'uomo come fosse una pedina e fondamentalmente, usa la gravidanza come segno più importante del suo potere sull'uomo. Penso che sia alquanto triste ritenere che l'unico modo per una donna di affermare la propria superiorità, se vogliamo ancora credere e batterci per il giochino della superiorità tra uomo e donna, sia quello di partorire e non, per esempio, il farsi strada in una carriera lavorativa in cui sono tendenzialmente gli uomini ad eccellere (anche questo sarebbe un argomento da affrontare). Implicitamente ritorniamo indietro di circa 60 anni, quando  il massimo che si chiedeva alla donna era di essere una brava moglie e una buona madre, che a tutto il resto ci pensava il marito/padre. Sottomessa e anche incapace.
Non nego che esistano donne che, effettivamente, hanno usato il trucco della gravidanza per farsi sposare, ma ciò che c'è di sbagliato è innalzare questi episodi a degli stereotipi, visto che lo stereotipo è per definizione un'opinione (negativa o positiva che sia) su qualcuno o qualcosa, largamente condivisa; il punto è che si rischia di trasformare questo tipo di donna che, ripeto, effettivamente può esistere ed in effetti esiste, in un personaggio tipo frutto dei soliti vecchi stupidi clichè che ancora non si riescono a vincere. Ed è oltremodo assurdo e pericoloso, visto che il giustificare e spiegare determinate cose con un semplice "La donna vuole essere dominata" può essere mal interpretata da quegli uomini che invece incarnano il clichè dell'uomo/bestia totalmente in balia delle proprie passioni e pulsioni sessuali che sono poi alla base di quelle tragedie che sempre più spesso riempiono i notiziari.
Forse, nel 2012, sarebbe il caso di ampliare un pò i propri orizzonti, di liberarsi da quelle barriere mentali e da quei pregiudizi che per anni hanno condizionato ed offuscato la mente e il modo di pensare delle persone, e che a quanto pare continuano a fare ancora oggi. E sarebbe forse anche il momento di mettere da parte l'ormai stancante diatriba su chi sia superiore tra l'uomo e la donna visto che non è possibile attribuire determinati meriti o demeriti ad un'intera categoria, ma solo all'uomo o la donna presi singolarmente.

giovedì 7 giugno 2012

Pazzo. Affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non conforme ai modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di sé stessa. In poche parole, diverso dagli altri.

Sulla pazzia sono state spese migliaia di parole, dalla notte dei tempi. Ma non è della malattia che voglio parlare qui. Ma di quel modo di essere diverso che, nel corso del tempo, ha fatto si che la società giudicasse ed etichettasse come pazze quelle persone che, come suggerito dal titolo, erano semplicemente dotate di un'indipendenza intellettuale e che hanno rifiutato di seguire gli schemi preimpostati della società.
Persone scomode insomma, da tenere a distanza con la scusa, appunto, della pazzia.
Persone che non hanno accettato di seguire i sentieri già tracciati da altri, ma sono andati alla ricerca della loro strada, del loro percorso; persone dotate di una sensibilità forte e profonda, cosi vasta da potersi difficilmente esprimere in maniera normale e difficilmente comprensibile da chi non era e non è dotato della stessa sensibilità.
Sensibilità artistica, mi piace definirla.
Perchè infondo a  ben guardare gli artisti migliori sono quelli dotati di una complessità caratteriale che si traduce in un atteggiamento di rifiuto per tutto quanto sia già prestabilito e preimpostato, ma nello stesso tempo, nella spasmodica voglia di essere accettati per come si è da quella stessa società che loro tendono a fuggire, per la paura di non essere capiti, di essere posti ai margini.
Cosa che poi effettivamente accade, visto che viviamo in un epoca (ma in realtà è sempre stato cosi a ben guardare) dove l'individualismo è la peggiore delle malattie e possedere una personalità diversa, equivale ad avere una sorta di anatema che pende sulla testa tipo spada di Damocle. Essere se stessi, per persone del genere, è la peggiore delle disgrazie, un biglietto di sola andata per la via della solitudine.
E c'è, paradossalmente, un bell'inneggiare all'' "Express yourself", anche se poi l'unico io che viene chiesto di esprimere è quello che poi può essere plasmato a piacimento di chi, con non si sa quale potere e autorità in effetti, ha deciso che si deve seguire una determinata strada, sia nel modo di agire che di pensare.
E c'è chi appunto, questa strada non vuole seguirla.
C'è chi preferisce la sofferenza della solitudine piuttosto che adeguarsi ai dettami di una società che vorrebbe tutti dannatamente uguali, quasi come se fossimo stati progettati in serie.
Essere accettati o non tradire la propria natura?
Ed è da qui che nascono quelle lotte interiori, quella sofferenza del non sapere cosa fare e soprattutto cosa essere. Chi essere. Ed ecco che l'artista, la personalità artistica viene fuori, contorcendosi tra la sofferenza del non essere accettato e dalla soddisfazione di non essersi piegato ad un compromesso che andava contro ciò che è la propria natura. Le opere migliori nascono dalla sofferenza: l'artista infondo ha bisogno di soffrire;artista e sofferenza sono strettamente connesse, nell'intimo. E' scavando dentro di se e compiendo un viaggio nei propri inferi, tra i propri demoni che chi una personalità artistica ( o chi è pazzo, prendendo anche il punto di vista della società) riesce in qualche modo a mettere ordine nel proprio io e soprattutto, riesce ad esprimersi in maniera a dir poco meravigliosa.
Sono le crisi a tirare fuori il meglio nelle personalità di questo tipo, cosi come i giorni più belli e luminosi nascono dalle notti più buie.

Ed ecco che infondo, a ben vedere...quelle persone che vengono definite pazze, o con problemi mentali..altro non sono che semplicemente diversi. Artisti.


sabato 2 giugno 2012

Si all'abolizione del valore legale del titolo di studio.

Giorni fa, mentre ero in facoltà per sbrigare le pratiche burocratiche relative alla laurea, mi è capitato di leggere un cartello appeso ad una porta, in cui gli ignoti autori si dichiaravano contrari all'abolizione del valore legale del titolo di studio. Riprendeva la protesta partita in seguito alla decisione del governo Monti di abolire appunto il valore legale della laurea. Dal 22 marzo inoltre era anche partito un sondaggio online per raccogliere le opinioni pubbliche: naturalmente, il risultato è stato ovvio e senza sorprese. No all'abolizione.
Per quanto mi riguarda, e mettendoci dentro anche la mia personale esperienza di chi, finalmente!, sta concludendo questo ciclo di studi, l'abolizione del valore legale è più che giusto, almeno in alcuni punti. Da sempre ci lamentiamo della mancanza di meritocrazia in questo Paese e quando poi finalmente la meritocrazia ci viene presentata davanti, le giriamo le spalle. Di certo, non sono favorevole alla creazione di atenei di serie A e B: il governo affermava che aver studiato al Politecnico di Milano, ad esempio, avrebbe avuto un peso maggiore dell'aver studiato ad esempio, a Reggio Calabria. Ma sono di certo favorevole affinchè avvenga una distinzione tra Università pubbliche e private, in favore ovviamente delle prime; a parte un discorso di formazione personale che mi fa rifiutare l'idea di un elite di studenti, o che questa elite venga in un certo modo favorita nei concorsi pubblici per la provenienza da scuole in cui si sborsano milioni per avere un'istruzione e non solo per quello. E qua mi fermo, per non alimentare polemiche, sebbene chi mi conosce sa perfettamente come la penso.
Il punto più importante è che il valore dovrebbe essere eliminato per il semplice motivo che ormai, essere laureati non equivale automaticamente ad essere intelligenti e capaci. Sempre più spesso infatti, mi è capitato (ricordo che qui su questo blog io parlo sempre per esperienza personale) di avere a che fare con persone che, laureate in qualsiasi settore e non necessariamente solo nella mia stessa facoltà, non sono poi capaci nella vita di tutti i giorni di fare un discorso sensato o di scrivere in italiano senza fare quegli errori che vengono classificati come "da prima media". Purtroppo molto spesso e molte persone confondono l'aver preso un bel 110 e lode con l'avere un cervello di tutto rispetto. Ma a ben guardare alla fine non è cosi. E questo infatti poi si vede al di fuori delle Università quando i neo laureati vengono messi veramente alla prova e dove non basta imparare a memoria una paginetta da ripetere davanti al professore per saperci fare. Dove il ricordarsi a memoria una legge, una formula matematica, un procedimento linguistico servono a poco se non riesci a metterle praticamente in atto.
Ed ecco perchè mi pare più che giusto e sacrosanto che almeno nei concorsi pubblici, nei colloqui di lavoro ecc, non si debba tener minimamente conto del giudizio finale conseguito in seduta di laurea. Le vere capacità di una persona non sono di certo deducibili, per i motivi espressi su e per altri ancora, da un numero.
In effetti, va anche considerata la realtà di tutte quelle persone che per mantenersi gli studi hanno contemporaneamente lavorato togliendo, per forza di cose, parte di tempo e di attenzione allo studio e non potendo cosi ottenere voti eccelsi. O anche la realtà di quelle persone che hanno compreso perfettamente che solo con una laurea in mano ormai si fa ben poco e hanno cercato di ''racimolare' esperienza con dei lavori inerenti al loro campo di studio e che alla fine della carriera universitaria non ottengono di certo la lode, ma hanno racimolato molta più esperienza di chi invece si è dedicato solo agli studi con una capacità intellettiva degna di un criceto.Ovviamente lungi da me dal fare di tutta l'erba un fascio,
Ma qui esprimo il mio parere personale, condivisibile o meno.

E quello che ho imparato è che un buon voto non ti rende automaticamente intelligente.

domenica 27 maggio 2012

"L'ironia irrita. Non perché si faccia beffe o attacchi, ma perché ci priva delle certezze svelando il mondo come ambiguità."

"Ma perchè dai sempre queste risposte al vetriolo??" "Possibile che tu debba essere sempre cosi acida?" "Ma a colazione mangi yogurt al limone scaduto?". E via dicendo.  Chiedo scusa se incentrerò questo post su di me, ma magari può risultare anche utile in un certo senso. Ultimamente le persone sono concordi nel darmi la definizione di ''acida''. Certo, non sono un bignè alla crema, questo è poco ma sicuro. Anzi no: in realtà sono la tipica ragazza fintamente cinica, che in realtà nasconde (odio quest'espressione) un grande cuore. Ma appunto lo nascondo: ma cos'è, a tutti dobbiamo far vedere come siamo nel profondo? tutti devono poterci scrutare dentro? Ma ritorniamo al mio essere acida. Ci terrei a precisare, che molto spesso quella che molti scambiano per acidità è semplicemente ironia, un modo dissacrante di analizzare la realtà, di dare il proprio punto di vista su ciò che ci circonda. Ed è proprio quello il momento in cui, la mia presunta acidità viene fuori. Quando mi soffermo con attenzione a  guardare quello da cui siamo circondati. Quando vedo che la società in cui viviamo non va da nessuna parte, ma anzi si sta lentamente chiudendo su stessa, inglobandoci e andando verso una lenta ed inevitabile implosione. No, non voglio essere la solita qualunquista che blatera sui disvalori della società: da che mondo è mondo, la società ha sempre avuto momenti del genere, momenti in cui sembrava un cane che si morde la coda. Prendiamo ad esempio il periodo del 68, che mi trovo ad analizzare per la mia tesi di laurea: li si che di disvalori e di motivi per indignarsi ce n'erano, forse anche più di adesso ( o forse come adesso, visto che mi ritrovo a fare sempre dei parallellismi tra la società attuale e quella di allora). Ma la differenza vera la facevano le persone, con le loro lotte, il loro gridare la loro indignazione. Invece adesso, senza offesa, siamo circondati per lo più da branchi di pecore, assuefatti al sistema e totalmente ignari di esserlo. Di persone che veramente fanno qualcosa, s'impegnano veramente e non per un tornaconto personale ne esistono veramente poche: la maggior parte preferisce girarsi beatamente dall'altra parte, sorseggiando un aperitivo e chiacchierando superficialmente con gli amici, ignorando totalmente quello da cui sono circondati, perchè fino a quando c'è la possibilità di comprarsi l'ultimo modello di scarpe, vestito, borsa di una qualsiasi  marca allora va tutto bene.  Oppure all'opposto, questi rivoluzionari vestiti con kefiah e maglia del Che (che fa taaanto estremista convinto) sempre pronti alla lotta, che poi alla minima difficoltà mollano tutto e vanno a ingrossare le fila del primo gruppo. Ma come si fa a non essere acidi in questi casi? Come si fa ad essere ''carini e coccolosi'' quando la maggior parte delle ragazze di oggi con i loro comportamenti calpestano secoli di lotte femministe e i ragazzi sono incapaci di prendersi una qualsiasi responsabilità? Come si fa a vivere tranquilli fingendo che va tutto bene, quando le cose che vanno bene sono rarissime? Anche a me, confessione, piacerebbe essere una di quelle ragazze che sorseggiano aperol soda con le amiche, postando le foto tramite instagram. A volte ci penso lo confesso. Penso che mi piacerebbe andare a fare shopping a Londra, che ormai sembra essere diventata una tappa obbligatoria per poter vivere bene in questo mondo, indispensabile come il filmino della prima comunione. O una di quelle capaci di capire se il marrone col nero ci sta bene o no. O invece, una di quelle che si mostrano come super donne sempre impegnate, delle piccole donne di affari o delle giovanissime Miranda Presley, quando invece tutto quello che fanno è scrivere su un giornale, sito internet letto tutt'al più da parenti e amici,e tutti quegli espertoni di musica, arte, sport o qualsiasi argomento a caso. Si, a volte vorrei sapermi integrare con queste persone, magari parlocchiando dell'ultimo iphone che deve uscire e chattando tramite whatssup. Io non ho un iphone e cosa sia whatssup l'ho scoperto all'incirca due giorni fa. Ma la mia acidità, il mio essere dannatamente ironica, nasce essenzialmente da tutto questo. Da una parte, dal voler essere parte anche io di questa società, come tutti. E dall'altra il mal di pancia che mi prende quando penso che perchè ciò accada io debba diventare una pecora che segue il gregge, devo snaturare ciò che sono. Non sto criticando nessuno, se qualcuno si sente punto dalle mie parole, è il caso che si faccia un esame di coscienza. Per quanto mi riguarda, io continuo ad osservare, lanciando frecciatine acide/ironiche per dare la mia opinione, perchè questo è un sacrosanto diritto. Sperando che prima o poi, ci sia qualcosa per cui valga la pena lottare  sul serio.
Altre domande?


Ora, visto che sono acida e insopportabile, lascio un'immagine tenera e coccolosa che attutisca un pò il post. Per tutti i diabetici all'ascolto, fissate l'immagine e vi riprendete subito.




martedì 15 maggio 2012

La previdibilità della stupidità.

Ho volutamente omesso alcune informazioni sul mio conto, pensando che fossero inutili e che questo blog mi avrebbe aiutata a farmi conoscere saltando tutto quel giro di cose che in ogni conoscenza sono infondo basilari. Io sono nata a Reggio Calabria, ma non ci vivo più da anni ormai. E senza perdermi in descrizioni sulla bellezza della mia terra, del meraviglioso panorama che si staglia dal chilometro più bello d'Italia, devo in questa sede confessare che molto spesso ormai pensare a Reggio mi suscita un profondo senso di tristezza e sdegno per le condizioni in cui ormai riversa. E non parlo solamente di condizioni "fisiche" con le zone periferiche della città che sembra abbiano ingaggiato una gara  di degrado con le favelas brasiliane e sui soldi che l'amministrazione comunale sceglie ogni estate di usare per riempire le serate reggine con improbabili manifestazioni musicali anzichè risolvere quei problemi, come la mancanza d'acqua, che in una città che si fregia del titolo di "Città Metropolitana" non dovrebbero nemmeno esistere. Parlo di quella pochezza, povertà morale ed etica che ormai da un pò di tempo sembra governino imperiosi le menti di alcuni miei, ahimè, concittadini e che esprimono tale pochezza con gesta degne del cattivo più stupido dei film. Perchè, a mio parere, per compiere certe azioni non è necessaria solo una cattiveria di fondo che comunque è palese...bisogna proprio essere stupidi, limitati nel pensiero e nel ragionamento. Si era già cominciato settimane fa, quando un ragazzo omosessuale è stato aggredito in pieno centro città, nei pressi del teatro comunale,  da un manipolo (se mi è concesso) di fulgidi cretini che avevano inizialmente indirizzato verso il ragazzo insulti omofobi a cui si erano poi aggiunte anche le critiche dell'infermiere che ha poi curato il ragazzo per le percorse subite.
E' di oggi invece la notizia che il centro sociale Cartella ha subito un attacco, anzi un vero e proprio attentato, neofascista che l'ha praticamente distrutto: la scorsa notte alcuni personaggi ancora ignoti si sono introdotti nella struttura, inzozzandola (permettetemi il termine) con scritte inneggianti a Mussolini e svastiche naziste sul murales dedicato a Che Guevara e dando poi fuoco alla struttura. Quello che è accaduto, oltre appunto ad essere la manifestazione di un grande senso di stupidità e limitatezza, non è che la summa di una serie di piccoli incidenti che il centro sociale stava già subendo da parecchio tempo: dalla colla nei lucchetti fino ad episodi più consistenti, come la razzia di generi alimentari e soldi che il centro Cartella aveva raccolto per festeggiare il primo maggio. Il gesto di questa notte è in qualche modo prevedibile. Apro quindi una piccola  digressione; è ormai chiaro come il cielo d'agosto che i tempi della Primavera reggina realizzata dall'amato sindaco Falcomatà, sono ormai un ricordo lontano e che sfuma sempre più. Reggio è ormai a tutti gli effetti una città dove il fascismo regna sovrano e incontrastato: basti pensare alla decisione dell'allora sindaco Scopelliti (e ora governatore della Calabria) di intitolare nel 2006 l'Arena dello Stretto al capo del gruppo conosciuto come "Boia chi Molla" Ciccio Franco  e alla proposta di intitolare piazza Orange ad un altro esponente della destra estrema, firmatario anche del manifesto della razza, Giorgio Almirante. E' una città con un buco di 170 milioni di euro, i cui dirigenti si suicidano misteriosamente.
Ma qui non è tanto l'essere fascisti il problema, o il punto della questione. Io sono di idee diverse, ma come tutte le persone democratiche sono dell'opinione che ognuno debba essere libero di seguire le proprie idee. E non voglio fare assolutamente di tutta l'erba un fascio: conosco persone che si definiscono fasciste o che abbracciano anche solo in parte questa ideologia, ma che sono tra le persone più educate ed intelligenti che conosca.
Non voglio, sebbene ammetto di pensarla cosi, tirare fuori fatti storici che servirebbero a confermare la mia tesi, come l'assurdità di auspicare un ritorno ad un epoca buia come quella del fascismo: per me qui non si tratta solo della semplice lotta politica. In questo caso, come ho scritto più volte io mi sento più di parlare di stupidità: quella stupidità che impedisce a chi compie questi atti deprecabili di comprendere che appunto, la liberà di pensiero è sacrosanta, cosi come il diritto/dovere di esercitarla in maniera non violenta e senza sconfinare nelle altrui libertà. E chi ha compiuto questo attentato, ha violato dal primo all'ultimo questi diritti.

domenica 13 maggio 2012

Oh Capitano, mio Capitano.

C'è sempre un pò di tristezza negli addii. Anche se infondo, la persona che ci dice addio, non l'abbiamo mai vista dal vivo, nè ci abbiamo mai scambiato due parole. Io, quando Alex ha esordito nella Juventus era il 1993  io avevo 6 anni: all'epoca di calcio non me ne interessava molto. Tifavo Juventus, perchè mio padre è juventino e ha sempre ripetuto che si può diventare milanisti, interisti ecc...ma juventini si nasce, è una cosa che ti porti dentro e per me non poteva essere altrimenti. Per me la Juve è stata un altro modo per stringere ancora di più il legame con mio padre; non ci capivo niente di calcio (adesso non è che sia una stratega di tecniche calcistiche, ma mi vanto di capire cos'è un fuori gioco) ma vedere le partite con lui mi piaceva, mi divertiva. E se guardi la Juventus, non puoi non innamorarti di Del Piero. O per lo meno, per me è successo cosi...a poco a poco ho cominciato ad affezionarmi, se cosi si può dire per una persona che nemmeno sa che esisto, alla figura di questo calciatore che iniziò a giocare durante il periodo di assenza di un altro grande della storia del calcio, Roberto Baggio, e che per le sue capacità fu preferito a quest'ultimo che venne ceduto al Milan. Qui faccio una breve parentesi: alla Juventus ci sia affeziona come una famiglia, o per lo meno a me è successo cosi, ed è per questo che tutti gli addii dati alla Juve sono stati tristi per me; ed ecco perchè non ho subito provato simpatia per Del Piero, che aveva praticamente preso il posto di Baggio. Ma non si può non apprezzare Del Piero. A prescindere dalla tifoseria, dall'appartenere o meno alla squadra bianconera, Alex è uno di quei giocatori che dentro e fuori dal campo si distinguono per la grandissima classe ed umiltà, per non aver mai detto o fatto qualcosa fuori posto, qualcosa di eccessivo. Del Piero per me, era la Juventus. Lo dico magari anche con poco spirito patriottico, ma era l'unico motivo per cui guardavo la Nazionale, cercando con un pò di ignoranza calcistica ed incapacità di capire i motivi che avevano spinto l'Avvocato a dargli il soprannome di "Pinturicchio". Non sono capace di fare commenti tecnici sul suo modo di giocare, nemmeno conosco le parole adatte. Non so nemmeno, e forse questo mi penalizza come tifosa, il numero di trofei vinti, o dove abbia militato prima della Juventus. Infondo non è questo ciò che fa grande un uomo, questo fa grande il calciatore; ed è indubbio che lui come calciatore sia stato (quant'è brutto usare il passato per riferirsi a lui!) uno dei grandi della storia non solo della Juventus, ma del calcio. Si potrebbero citare mille giocatori, suoi avversari che hanno lodato le sue capacità e qualità di giocatore: Cristiano Ronaldo, Messi, Ronaldinho, Maldini, Maradona. Ma infondo, ad Alex non ci si affeziona per il numero di gol fatti e per l'importanza degli avversari che lo hanno lodato. Alex era ed è a tutti gli effetti la bandiera portante della Juventus, l'emblema, il simbolo. L'una è impensabile senza l'altra. Eppure, da oggi dobbiamo cominciare a farcene una ragione. Alex ha dato l'addio alla Juventus, sebbene tutti noi tifosi juventini (e ammettetelo, anche i non juventini) speriamo sempre che la dirigenza bianconera ci faccia una sorpresa annunciando il tanto atteso accordo tra la società ed il calciatore. Perchè è ancora impensabile per molti, dare l'addio ad una persona che dentro e fuori ha sempre dato tutto. Una persona che, personalmente parlando, ho sempre definito con un unico aggettivo: elegante. Alex era elegante nel campo, sia nei movimenti che nel fair play. Niente di mai eclatante, anche quando magari la sua rabbia poteva giustificare gesti magari troppo estremi che altri non si sono mai risparmiati. Nessuna parola fuori posto, anche quando avrebbe avuto mille motivi per urlare: il suo silenzio, in questi casi, valeva molto di più come ogni vero campione che si rispetti. Uno che quando la sua squadra è retrocessa in serie B, ha dichiarato "Un cavaliere non abbandona mai una Signora". Niente gossip su di lui che ha sposato, non una velina o una modella, ma una commessa, una che non è mai apparsa su nessuna rivista e di cui (grazie a Dio) non conosciamo ogni centimetro di pelle. Mai sopra le righe, esattamente come lui; ed infondo anche per questo Del Piero si distingueva, tra miliardi di giocatori che esibivano ed esibiscono love story con modelle ed attricette, ricchezze esorbitanti e capricci degni di una star di Hollywood più che di un giocatore di calcio italiano.
Niente di tutto questo in lui, che anche quando faceva beneficenza lo faceva senza mai farsi troppa pubblicità, senza cercare attenzione mediatica su di sè, ma solo su quello che era impegnato a fare.
Ecco, è impossibile non commuoversi vedendo Alex inchinarsi davanti a 41 mila tifosi che si dimenticano che  c'è in corso una partita e chiamano a gran voce il suo nome, e che alla fine fa un giro di campo nascondendo la commozione, la stessa commozione che i tifosi della Juventus invece non riescono a nascondere.
E' impossibile non commuoversi specie per chi, come me, l'ha visto crescere in questa magnifica squadra, sia come uomo che come giocatore.
Alex è uno degli ultimi, se non l'ultimo, vero capitano, con buona pace di tutti gli altri giocatori che almeno dal punto di vista ''umano'' avrebbero tanto da imparare da lui. E il suo addio offusca un pò, il giorno della festa scudetto della squadra. E in cuor mio, come tutti, spero sempre che la dirigenza ci ripensi, e che io tra qualche tempo possa scrivere un post dal titolo "Pinturicchio è tornato".


Una menzione speciale va ad un altro grande calciatore, che proprio con Alex ha formato quella che per me è stata la migliore coppia del calcio italiano: Filippo Inzaghi. Ed anche lui oggi ha dato l'addio al calcio, giocando l'ultima partita con la grande rivale della Juventus, il Milan.
A me, tutto questo fa venire un grande senso di commozione. Si è ormai capito, penso, che sono una persona malinconica e molto affezionata a certi periodi della mia vita: e questi due addii (ricordo anche che oggi hanno lasciato anche Gattuso, Nesta e Seedorf) infondo segnano non solo la storia delle due squadre, ma anche un pò la mia e di tutte quelle persone che giocavano a calcio (si, io "giocavo" a calcio da piccola) da piccoli litigandosi il "nome" di Del Piero o quello di Inzaghi, o che si emozionavano a vederli giocare insieme e infondo, sentivano sempre una sorta di "fastidio" nel vederli giocare come rivali.





domenica 29 aprile 2012

I vegetariani: falsi eroi.

Ogni giorno chiunque possieda un profilo facebook o twitter, si vede invaso delle più disparate battaglie condotte da nuovi mirabolanti e straordinari eroi virtuali che si prodigano per diffondere nel mondo, inteso come quei 500 contatti e più che hanno nel loro profilo, la loro idea di mondo migliore. Ed ecco che spopolano  immagini/link di bambini malati di cancro che guariscono miracolosamente grazie ad una semplice condivisione, politici che allo stesso modo smetteranno di rubare e fare le loro porcate e poi ci sono loro, quelli che da un pò di tempo stanno diventando in assoluto i miei preferiti. I vegetariani/vegani. Come i venditori di ombrelli che spuntano improvvisamente e non si sa da dove quando piove, arrivato il periodo di Pasqua eccoteli che ti invadono lo spazio virtuale con link pieni di immagini di poveri animali con gli occhioni e scritte come "se lo mangi sei tu l'animale" (dimenticandosi evidentemente che loro non sono nati vegetariani, e magari delle abbuffate che si sono fatti ai fast food prima di convertirsi).
Faccio una piccola parentesi sennò rischio il linciaggio: io sono contraria al maltrattamento degli animali, alla vivisezione e alla ricerca sugli animali. Ma non sono contraria al mangiare carne perchè da che mondo è mondo, l'uomo mangia carne e a meno che non decidiamo di farci cremare, anche l'uomo un giorno diverrà carne (si, per i vermi). Ovviamente, non sto assolutissimamente criticando la scelta delle persone che decidono di condurre un regime alimentare in cui la carne è completamente eliminata come i vegetariani, o chi decide addirittura di eliminare i prodotti di origine animale come i vegani; è chiaro che ognuno è libero di seguire la propria coscienza. Appunto, però parliamone di questa coscienza: la maggior parte di questi nuovi fanatici del vegetarianesimo, s'indignano se la maggior parte della popolazione mondiale mangia carne, ma non fanno una piega se si tratta di comprare capi cuciti da ragazzini africani/cinesi/qualsiasi Paese sottosviluppato con le dita insanguinate per dieci cent l'ora; o tantomeno non si fanno problemi ad assumere medicine che sono state testate sugli animali che loro vogliono proteggere ( o dicono di voler fare) o le creme di bellezza che spesso sono prodotti derivanti dai suddetti animali. Il punto è che anche per essere vegetariani, bisogna essere ben informati, e anche meno presuntuosi. Spesso infatti mi è capitato di difendere la mia posizione di onnivora, quasi poi che fosse una colpa, con vegetariani convinti di essere illuminati dal Creatore che volevano convincermi a tutti i costi a seguire la loro via illustrandomi le meraviglie che il loro regime alimentare comporta. Perchè i vegetariani, adottano due strade per convincerti: quella della pietà e quella " scientifica". Con la prima fanno leva sul tuo senso etico, sul fatto che anche il maiale che ti sei scofanato sotto forma di costolette la sera prima era un essere vivente con occhi e bocca e capace di provare dolore. Eh si bravi. E allora le piante, le verdure che vi mangiate? Non sono esseri viventi? Solo perchè non hanno occhi o bocca non soffrono? e solo perchè non esistono immagini fighe di carote piangenti e patate con occhioni sgranati, allora non dobbiamo aver pietà di loro?E allora lasciamoci pungere dalle zanzare, e lasciamo la nostra casa infestata dagli insetti...perchè loro non sono pure animali?Quindi, se dobbiamo seguire la prima via dei vegetariani, ci troveremmo a non dover mangiare niente.
La seconda strada è quella, ovviamente della propaganda scientifica. E' chiaro a tutti, perfino a me che ammetto di aver molto diminuito la mia dose di frutta e verdura, che un'alimentazione ben variegata, con appunto molta frutta e verdura faccia più che bene. Il punto è che i vegetariani esaltano gli, innegabili, aspetti positivi della loro dieta ma furbescamente evitano (o magari non lo sanno nemmeno loro!) di esporre anche i gli aspetti negativi,perchè ce ne sono, come in ogni cosa. Infatti, secondo studi scientifici condotti ad Oxford (si, sempre loro) i vegetariani e ancora di più i vegani incorrono nel rischio di mancanza della vitamina B12 che può condurre ad anemia perniciosa o megaloblastica, e nei casi più gravi in disturbi del sistema nervoso: si tratta di una vitamina presente nella carne e nel pesce (vegetariani e vegani) e negli alimenti di origine animale come uova e latte (che i vegani non mangiano). Un altro punto fondamentale è la ferratina che è si presente anche in alcuni elementi vegetali, ma in misura decisamente minore rispetto a quella che si trova negli animali, oltre che il ferro presente negli animali è più facilmente assimilabile dal nostro organismo rispetto a quella di origine vegetale. E i vegetariani, quando esauriscono la loro riserva di ferro  vanno in anemia sideropenica: non dimentichiamo inoltre le donne in periodo di mestruo, gravidanza ed allattamento che hanno un maggiore bisogno di ferro che, se non assimilato tramite carne, dovrebbero integrare con i farmaci..ma perchè usare i farmaci se abbiamo un elemento naturale? Andando su argomenti un pò più seri e " pesanti": risulta infatti che i vegetariani siano più esposti al rischio di contrarre il tumore all'intestino, sebbene chi non mangia verdura e frutta rimane comunque esposto ad un rischio maggiore di malattia. Oltre che, sempre secondo studi scientifici documentati, i vegetariani incorrono più spesso in disturbi alimentari come anoressia e bulimia.
In conclusione, è chiaro che assumere una giusta quantità di verdure e frutta faccia più che bene, ma è altresì vero che eliminare totalmente la carne comporta dei rischi non trascurabili per la salute.