venerdì 22 giugno 2012

Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte,mi cercarono l'anima a forza di botte.

Un film. Uno di quelli peggiori, di quelli che se li vedi ti angosciano, e ti lasciano col tormento che quello successo al protagonista potrebbe accadere a tuo fratello o un tuo amico; un ragazzo, un diciottenne cammina per la strada di Via Bologna: è appena uscito da un locale con amici, hanno bevuto, assunto un pò di droga di quella leggera, qualche spinello, e lui decide di tornarsene appunto a casa a piedi. Una pattuglia della polizia lo nota. E' l'alba. E il ragazzo è violento, violentissimo. Talmente violento da attaccare i due poliziotti che devono addirittura chiamare rinforzi. Arrivano altri due poliziotti che tentano di calmare quel ragazzo invasato che comincia ad attaccare con colpi di karate, tanto da rompere due manganelli. E questa è la versione data dai poliziotti. Il ragazzo poco dopo, otto minuti per la precisione, è morto: l'ambulanza giunta sul posto non può che constatare il decesso del ragazzo, trovato con le manette ai polsi.
E poi il seguito, quando le luci del giorno si fanno più chiare e l'incubo sempre più scuro. I genitori si accorgono che il figlio alle otto non sta dormendo nel suo letto. E pensateci, quelli tra voi che sono genitori, che cosa vuol dire svegliarsi e trovare il letto del proprio figlio vuoto; pensate a cosa possono provare un padre e una madre quando, dopo che per l'ennesima volta il cellulare aveva squillato invano, sentono dall' altra parte non la voce del figlio, ma quella di uno sconosciuto che annuncia di aver trovato il cellulare per strada e che si stanno effettuando degli accertamenti. E quando poi, ore dopo, una pattuglia della polizia si presenta a casa spiegando freddamente, quasi come se fosse appunto un film, quello che è successo a due genitori. Pensate a cosa hanno potuto pensare in quel preciso momento i genitori di Federico Aldrovandi, Lino e Patrizia, quel 25 settembre 2005, ben sette anni fa. Ogni volta che provo a figurarmi la scena nella testa, mi si gela il sangue nelle vene, a me che madre ancora non lo sono.
Un genitore non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio. Anzi, senza condizionale: un genitore NON DEVE sopravvivere al proprio figlio, è la cosa più innaturale del mondo.
E pensate a come deve essere gelato il sangue ai genitori quando in questura dicono loro che il figlio era un drogato, un'appartenente alla gioventù bruciata e che se era morto era solo colpa sua e delle droghe che aveva preso. Se l'era cercata, insomma. Eppure il corpo del figlio all'obitorio urla tutt'altro: insanguinato, tumefatto,le ferite lacero contuse alla testa fanno capire che si sta nascondendo qualcosa, una verità scomoda ed orrenda. Pensate al dolore dei genitori: non provo nemmeno a figurarmelo, non provo nemmeno a immaginare cosa hanno provato guardando il corpo di Federico mentre la polizia ripeteva la tarantella della droga.
Ma infondo, sono sicura che i genitori alle parole del questore non avevano minimamente creduto...ogni madre conosce il proprio figlio, sa se è o no un tossicodipendente. Da quel momento per la famiglia di Federico comincia un lungo calvario di processi, depistaggini, in cui non sembra mai apparire la fine del tunnel, in cui la verità viene continuamente manomessa.
E finalmente due giorni fa, la fine del tunnel si è vista: i quattro poliziotti sono stati condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per l'omicidio del diciottenne Federico Aldrovandi ;ma siccome siamo pur sempre in Italia, i poliziotti non si faranno nemmeno un'ora in prigione perchè c'è quella stramaledetta cosa chiamata indulto.
I genitori tirano un mezzo sospiro di sollievo: mezzo perchè giustizia è stata fatta, ma infondo niente riporterà a casa il figlio.  Quel letto rimarrà vuoto.
E' una vittoria amara, caratterizzata anche dalla infelicissima uscita del Ministro dell'interno, che sembra quasi voler rimettere in discussione tutto. "Se ci sono stati degli abusi..." Se?? Federico, cadrò nella banalità, non doveva morire. Non aveva qualche male incurabile, uno di quelli che alla fine portano addirittura a dire "Ha smesso di soffrire". Era un ragazzino: di storie come la sua ne è piena la cronaca italiana, basti pensare al caso Cucchi o Uva; ma qui, se mi è concesso, il cuore fa un sobbalzo in più, si stringe di più. Perchè Federico aveva compiuto solo due mesi prima 18 anni, affacciandosi alla vita adulta. Giusto un attimo, il tempo di spiccare il volo per poi schiantarsi violentemente al suolo.
Ma giustizia in un certo senso è stata fatta, Federico adesso potrà veramente riposare in pace.



"Salvate le sue labbra, salvate il suo sorriso...non ha vent'anni ancora, cadrà l'inverno anche sopra il suo viso"


sabato 16 giugno 2012

Studentesse e prostituzione.

La cosa che più fa pensare, leggendo certe notizie, è che infondo non è scritto niente di nuovo. Il che è già di per sè tragico, visto che la notizia di cui sto parlando, è quella riportata dal Corriere della sera sul fenomeno della prostituzione tra le studentesse italiane che, per pagarsi gli studi o semplicemente per la voglia di condurre una vita più agiata (leggi: da vip) decidono di offrire prestazioni sessuali in cambio di soldi. Personalmente, alla storia delle studentesse che arrivano a tanto per pagarsi gli studi ci credo poco e niente: di studentesse che per non pesare sulla famiglia decidono di pagarsi da se gli studi ne conosco molte, moltissime, e nessuna di loro ha mai scelto la via della prostituzione. Purtroppo questo fenomeno è strettamente collegato con un altro aspetto della società e  che in essa si fa sempre più largo.
E dare la giusta collocazione al fenomeno preso in esame, rende più comprensibile il fenomeno stesso; non è di certo un mistero che la maggior parte, se non la totalità, delle ragazze che decidono di intraprendere questa strada viva a Roma o a Milano. Soprattutto a Milano. Quella città metropoli del mondo, con le sue settimane della moda e i suoi locali chic e glamour. Quella città piena di modelle, modelline e presunte tali che vengono dall'est in cerca di fortuna e poi, metà di loro, si ritrovano a fare le accompagnatrici a vecchi avvocati o rampanti imprenditori, sperando prima o poi di riuscire a ricalcare le orme della Vivien di Pretty Woman. O anche, appunto, semplici ragazze che si ritrovano a sfiorare questo mondo di lustrini e pailettes, cravatte e tacchi alti e desiderano ardentemente farne parte. Il lusso, la fama e quella vita raccontata dai giornali di gossip e dai programmi televisivi  che fa gola a tante ragazze; forse per il sogno di una vita più tranquilla (?) o forse semplicemente per vanità. Non dobbiamo a tutti i costi andare sempre a cercare il risvolto tragico/psicologico in determinati comportamenti, non dobbiamo per forza andare a cercare remoti traumi psicologici o deficit di affetto familiare o mancanze economiche. Più semplicemente, nella maggior parte dei casi, si tratta di ragazze di buona famiglia, o comunque di condizioni economiche tranquille, che vogliono appunto compiere un salto in avanti nella scalata sociale. Ed ecco che appunto qui tornano in ballo quei giornali e quel tipo di televisione che impera in Italia da circa vent'anni (non specifichiamo quando, altrimenti rischio di sforare nel discorso politico) e che mostrano semplici ragazze divenute improvvisamente star internazionali dopo qualche foto di "nudo artistico" o nella maggior parte dei casi, cene e dopo cene con chi di dovere può aprire le porte di quel mondo che per il momento ammirano da lontano. Cosi, chi osserva e trova ammirevole tutto ciò, intraprende lo stesso cammino, cominciando con favori sessuali in cambio di qualche centinaio di euro, quello che basta per entrare nei posti giusti dove trovare prede sempre più facoltose, passpartout per un altro passo verso il raggiungimento del loro sogno di gloria.
E mica ci sono sempre le povere martiri da trovare in ogni storia.

No, la storia delle studentesse che si prostituiscono per pagarsi gli studi, per quanto mi riguarda, ha poca attinenza ormai con la realtà: chi vuol pagarsi gli studi fa la commessa, la baby sitter, lavora nei call center. La percentuale di chi usa la via della prostituzione è minore di quanto si creda.





martedì 12 giugno 2012

Cinquanta sfumature di stereotipi.

E' in arrivo dagli Stati Uniti  il nuovo fenomeno letterario del momento: "Cinquanta sfumature di grigio" dell'inglese E. L. James. Nel libro la protagonista è innamorata di tal riccone, e per compiacerlo accetta di sottomettersi alle sue fantasie sessuali; manco a dirlo, in America hanno deciso di farci su un film: abbastanza scontato visto che parliamo di un libro in cui c'è una donna sottomessa ad un uomo di potere e soprattutto è farcito di sesso a gogò (Sex and the city insegna). Il libro ha però fatto discutere per l'immagine stereotipata che dà sia dell'uomo che della donna, soprattutto in campo sessuale. Ed è cosi che il sito di D Repubblica, mette a disposizione un'intervista con il sessuologo Fabrizio Quattrini, presidente dell'istituto Sessuologia Scientifica di Roma che dà la sua personale visione sull'argomento stereotipi sessuali. Visione che, manco a dirlo, non trova la mia approvazione. Tralasciando la parentesi sulle fantasie sessuali delle donne, che trovo anche pericolose, è abbastanza deprimente infatti che ancora nel 2012 la donna venga vista come la  stronza megera, immagine che già la  Chiesa ha deciso di affibbiarci fin dagli albori della nascita del mondo, pronta a far credere all'uomo che è lui a comandare, dargli ciò che vuole in camera da letto e poi farsi ingravidare per ribaltare i ruoli della situazione e tenere l'uomo stretto a sè. E' deprimente ed assolutamente maschilista.
Intanto perchè ancora una volta è la donna che fa la parte di chi tiene le redini del gioco nell'ombra, che usa a suo piacimento l'uomo come fosse una pedina e fondamentalmente, usa la gravidanza come segno più importante del suo potere sull'uomo. Penso che sia alquanto triste ritenere che l'unico modo per una donna di affermare la propria superiorità, se vogliamo ancora credere e batterci per il giochino della superiorità tra uomo e donna, sia quello di partorire e non, per esempio, il farsi strada in una carriera lavorativa in cui sono tendenzialmente gli uomini ad eccellere (anche questo sarebbe un argomento da affrontare). Implicitamente ritorniamo indietro di circa 60 anni, quando  il massimo che si chiedeva alla donna era di essere una brava moglie e una buona madre, che a tutto il resto ci pensava il marito/padre. Sottomessa e anche incapace.
Non nego che esistano donne che, effettivamente, hanno usato il trucco della gravidanza per farsi sposare, ma ciò che c'è di sbagliato è innalzare questi episodi a degli stereotipi, visto che lo stereotipo è per definizione un'opinione (negativa o positiva che sia) su qualcuno o qualcosa, largamente condivisa; il punto è che si rischia di trasformare questo tipo di donna che, ripeto, effettivamente può esistere ed in effetti esiste, in un personaggio tipo frutto dei soliti vecchi stupidi clichè che ancora non si riescono a vincere. Ed è oltremodo assurdo e pericoloso, visto che il giustificare e spiegare determinate cose con un semplice "La donna vuole essere dominata" può essere mal interpretata da quegli uomini che invece incarnano il clichè dell'uomo/bestia totalmente in balia delle proprie passioni e pulsioni sessuali che sono poi alla base di quelle tragedie che sempre più spesso riempiono i notiziari.
Forse, nel 2012, sarebbe il caso di ampliare un pò i propri orizzonti, di liberarsi da quelle barriere mentali e da quei pregiudizi che per anni hanno condizionato ed offuscato la mente e il modo di pensare delle persone, e che a quanto pare continuano a fare ancora oggi. E sarebbe forse anche il momento di mettere da parte l'ormai stancante diatriba su chi sia superiore tra l'uomo e la donna visto che non è possibile attribuire determinati meriti o demeriti ad un'intera categoria, ma solo all'uomo o la donna presi singolarmente.

giovedì 7 giugno 2012

Pazzo. Affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non conforme ai modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di sé stessa. In poche parole, diverso dagli altri.

Sulla pazzia sono state spese migliaia di parole, dalla notte dei tempi. Ma non è della malattia che voglio parlare qui. Ma di quel modo di essere diverso che, nel corso del tempo, ha fatto si che la società giudicasse ed etichettasse come pazze quelle persone che, come suggerito dal titolo, erano semplicemente dotate di un'indipendenza intellettuale e che hanno rifiutato di seguire gli schemi preimpostati della società.
Persone scomode insomma, da tenere a distanza con la scusa, appunto, della pazzia.
Persone che non hanno accettato di seguire i sentieri già tracciati da altri, ma sono andati alla ricerca della loro strada, del loro percorso; persone dotate di una sensibilità forte e profonda, cosi vasta da potersi difficilmente esprimere in maniera normale e difficilmente comprensibile da chi non era e non è dotato della stessa sensibilità.
Sensibilità artistica, mi piace definirla.
Perchè infondo a  ben guardare gli artisti migliori sono quelli dotati di una complessità caratteriale che si traduce in un atteggiamento di rifiuto per tutto quanto sia già prestabilito e preimpostato, ma nello stesso tempo, nella spasmodica voglia di essere accettati per come si è da quella stessa società che loro tendono a fuggire, per la paura di non essere capiti, di essere posti ai margini.
Cosa che poi effettivamente accade, visto che viviamo in un epoca (ma in realtà è sempre stato cosi a ben guardare) dove l'individualismo è la peggiore delle malattie e possedere una personalità diversa, equivale ad avere una sorta di anatema che pende sulla testa tipo spada di Damocle. Essere se stessi, per persone del genere, è la peggiore delle disgrazie, un biglietto di sola andata per la via della solitudine.
E c'è, paradossalmente, un bell'inneggiare all'' "Express yourself", anche se poi l'unico io che viene chiesto di esprimere è quello che poi può essere plasmato a piacimento di chi, con non si sa quale potere e autorità in effetti, ha deciso che si deve seguire una determinata strada, sia nel modo di agire che di pensare.
E c'è chi appunto, questa strada non vuole seguirla.
C'è chi preferisce la sofferenza della solitudine piuttosto che adeguarsi ai dettami di una società che vorrebbe tutti dannatamente uguali, quasi come se fossimo stati progettati in serie.
Essere accettati o non tradire la propria natura?
Ed è da qui che nascono quelle lotte interiori, quella sofferenza del non sapere cosa fare e soprattutto cosa essere. Chi essere. Ed ecco che l'artista, la personalità artistica viene fuori, contorcendosi tra la sofferenza del non essere accettato e dalla soddisfazione di non essersi piegato ad un compromesso che andava contro ciò che è la propria natura. Le opere migliori nascono dalla sofferenza: l'artista infondo ha bisogno di soffrire;artista e sofferenza sono strettamente connesse, nell'intimo. E' scavando dentro di se e compiendo un viaggio nei propri inferi, tra i propri demoni che chi una personalità artistica ( o chi è pazzo, prendendo anche il punto di vista della società) riesce in qualche modo a mettere ordine nel proprio io e soprattutto, riesce ad esprimersi in maniera a dir poco meravigliosa.
Sono le crisi a tirare fuori il meglio nelle personalità di questo tipo, cosi come i giorni più belli e luminosi nascono dalle notti più buie.

Ed ecco che infondo, a ben vedere...quelle persone che vengono definite pazze, o con problemi mentali..altro non sono che semplicemente diversi. Artisti.


sabato 2 giugno 2012

Si all'abolizione del valore legale del titolo di studio.

Giorni fa, mentre ero in facoltà per sbrigare le pratiche burocratiche relative alla laurea, mi è capitato di leggere un cartello appeso ad una porta, in cui gli ignoti autori si dichiaravano contrari all'abolizione del valore legale del titolo di studio. Riprendeva la protesta partita in seguito alla decisione del governo Monti di abolire appunto il valore legale della laurea. Dal 22 marzo inoltre era anche partito un sondaggio online per raccogliere le opinioni pubbliche: naturalmente, il risultato è stato ovvio e senza sorprese. No all'abolizione.
Per quanto mi riguarda, e mettendoci dentro anche la mia personale esperienza di chi, finalmente!, sta concludendo questo ciclo di studi, l'abolizione del valore legale è più che giusto, almeno in alcuni punti. Da sempre ci lamentiamo della mancanza di meritocrazia in questo Paese e quando poi finalmente la meritocrazia ci viene presentata davanti, le giriamo le spalle. Di certo, non sono favorevole alla creazione di atenei di serie A e B: il governo affermava che aver studiato al Politecnico di Milano, ad esempio, avrebbe avuto un peso maggiore dell'aver studiato ad esempio, a Reggio Calabria. Ma sono di certo favorevole affinchè avvenga una distinzione tra Università pubbliche e private, in favore ovviamente delle prime; a parte un discorso di formazione personale che mi fa rifiutare l'idea di un elite di studenti, o che questa elite venga in un certo modo favorita nei concorsi pubblici per la provenienza da scuole in cui si sborsano milioni per avere un'istruzione e non solo per quello. E qua mi fermo, per non alimentare polemiche, sebbene chi mi conosce sa perfettamente come la penso.
Il punto più importante è che il valore dovrebbe essere eliminato per il semplice motivo che ormai, essere laureati non equivale automaticamente ad essere intelligenti e capaci. Sempre più spesso infatti, mi è capitato (ricordo che qui su questo blog io parlo sempre per esperienza personale) di avere a che fare con persone che, laureate in qualsiasi settore e non necessariamente solo nella mia stessa facoltà, non sono poi capaci nella vita di tutti i giorni di fare un discorso sensato o di scrivere in italiano senza fare quegli errori che vengono classificati come "da prima media". Purtroppo molto spesso e molte persone confondono l'aver preso un bel 110 e lode con l'avere un cervello di tutto rispetto. Ma a ben guardare alla fine non è cosi. E questo infatti poi si vede al di fuori delle Università quando i neo laureati vengono messi veramente alla prova e dove non basta imparare a memoria una paginetta da ripetere davanti al professore per saperci fare. Dove il ricordarsi a memoria una legge, una formula matematica, un procedimento linguistico servono a poco se non riesci a metterle praticamente in atto.
Ed ecco perchè mi pare più che giusto e sacrosanto che almeno nei concorsi pubblici, nei colloqui di lavoro ecc, non si debba tener minimamente conto del giudizio finale conseguito in seduta di laurea. Le vere capacità di una persona non sono di certo deducibili, per i motivi espressi su e per altri ancora, da un numero.
In effetti, va anche considerata la realtà di tutte quelle persone che per mantenersi gli studi hanno contemporaneamente lavorato togliendo, per forza di cose, parte di tempo e di attenzione allo studio e non potendo cosi ottenere voti eccelsi. O anche la realtà di quelle persone che hanno compreso perfettamente che solo con una laurea in mano ormai si fa ben poco e hanno cercato di ''racimolare' esperienza con dei lavori inerenti al loro campo di studio e che alla fine della carriera universitaria non ottengono di certo la lode, ma hanno racimolato molta più esperienza di chi invece si è dedicato solo agli studi con una capacità intellettiva degna di un criceto.Ovviamente lungi da me dal fare di tutta l'erba un fascio,
Ma qui esprimo il mio parere personale, condivisibile o meno.

E quello che ho imparato è che un buon voto non ti rende automaticamente intelligente.